Dominus Est !

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..Et unam, sanctam, cathólicam et apostólicam Ecclésiam!


    Concilio di Trento

    Stephanos
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:04 pm

    SESSIONE XVII (18 gennaio 1562)

    Decreto sulla celebrazione del concilio.

    Illustrissimi e reverendissimi signori, reverendi padri, vi sembra opportuno, a lode e gloria della santa, indivisa Trinità, Padre, Figlio e Spirito santo, ad incremento ed esaltazione della fede e della religione cristiana, che il sacro concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, da oggi 18 di gennaio 1562 dalla nascita del Signore, giorno dedicato alla cattedra di s. Pietro in Roma, principe degli apostoli, annullata ogni sospensione, riprenda la sua celebrazione, secondo la forma e il contenuto delle lettere del santissimo nostro signore Pio IV, pontefice massimo; e che in esso, nell’ordine dovuto, siano trattati quegli argomenti che, su proposta dei legati e presidenti, allo stesso sinodo sembreranno adatti e idonei a lenire le calamità di questi tempi, a sedare le controversie religiose, a reprimere le false lingue, a correggere gli abusi dei costumi, ad ottenere la vera e cristiana pace per la chiesa? [Risposero: sì].

    Indizione della futura sessione.

    Illustrissimi e reverendissimi signori, reverendi padri, credete opportuno che la prossima, futura sessione si debba tenere e celebrare il giovedì dopo la seconda domenica di Quaresima, che cadrà il 26 del mese di febbraio? [Risposero: sì].



    SESSIONE XVIII (26 febbraio 1562)

    Decreto sulla scelta dei libri e sulla volontà di invitare tutti al concilio con salvacondotto.

    Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, confidando non nelle risorse umane, ma nella protezione e nell’aiuto del signore nostro Gesù Cristo, che promise di dare alla sua chiesa le parole adatte e la sapienza (306), a questo principalmente tende: a poter ricondurre una buona volta la dottrina della fede cattolica - inquinata e appannata, in molti luoghi, dalle opinioni di molti, che la pensano in modo contrastante, - all’antica purezza e splendore, a riportare i costumi, lontani dall’antico modo di vivere, ad un comportamento migliore e a rivolgere il cuore dei padri verso i figli (307) e il cuore di questi verso i padri (308).

    Poiché, dunque, esso ha dovuto costatare che in questo tempo il numero dei libri sospetti e pericolosi, nei quali si contiene una dottrina impura, da essi diffusa in lungo e in largo, è troppo cresciuto, - e ciò è stato il motivo per cui molte censure in varie province, e specialmente nella città di Roma, sono state stabilite con pio zelo, senza però che ad un male così grave e così pericoloso giovasse alcuna medicina, - questo sinodo ha disposto che un gruppo di padri scelti per lo studio di questo problema, considerasse diligentemente che cosa fosse necessario fare e, a suo tempo, ne riferissero allo stesso santo sinodo, perché esso possa più facilmente separare, come zizzania, le dottrine varie e peregrine (309) dal frumento della verità cristiana (310); e con maggiore opportunità prendere una deliberazione e stabilire qualche cosa di preciso su quelle questioni che sembreranno più opportune a togliere lo scrupolo dall’anima di parecchia gente e a rimuovere le cause di molti lamenti.

    Esso desidera che tutte queste considerazioni vengano portate a conoscenza di chiunque, - ed intende farlo col presente decreto, - di modo che se qualcuno credesse che ciò che si riferisce ai libri e alle censure in parola, o alle altre cose che si dovranno trattare in questo concilio generale, lo riguarda in qualche modo, non dubiti di essere benignamente ascoltato dal santo sinodo.

    E poiché lo stesso santo sinodo desidera con tutto il cuore e prega istantemente Dio per la pace della chiesa (311), affinché tutti, riconoscendo in terra la comune madre, che non può dimenticare coloro che ha partorito (312), glorifichino unanimi, ad una sola bocca, Dio e Padre del signore nostro Gesù Cristo (313), per la misericordia dello stesso Dio e Signore (314), esso invita tutti coloro che non hanno la comunione con noi e li esorta alla concordia e alla riconciliazione; che vengano a questo santo sinodo; che vogliano attenersi alla carità, che è il vincolo della perfezione (315), e portino con sé la pace di Cristo, che esulta nel loro cuore, alla quale sono chiamati in un solo corpo (316).

    Ascoltando, perciò, questa voce non umana, ma dello Spirito santo, non vogliano indurire il loro cuore (317) non camminando secondo il loro sentimento (3l8), né piacendo a se stessi (319), siano scossi e si ravvedano ad una ammonizione così pia e così salutare della loro madre: poiché il santo sinodo, come li invita con ogni riguardo suggerito dalla carità, così li accoglierà.

    Ha decretato, inoltre, lo stesso santo sinodo, che si possa concedere un pubblico salvacondotto nella congregazione generale e che esso abbia la stessa efficacia, la stessa forza e la stessa importanza che se fosse stato concesso e decretato in sessione pubblica.

    Indizione della futura sessione.

    Lo stesso sacrosanto concilio Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della santa sede, stabilisce e dispone che la prossima, futura sessione debba tenersi a celebrarsi il giovedì dopo la festa santissima dell’ascensione del Signore, che sarà il 14 del mese di maggio.

    Salvacondotto dato ai Tedeschi nella congregazione generale del 4 marzo 1562.

    Il sacrosanto, ecumenico, generale concilio Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della santa sede, promette solennemente... (320).

    Si estende lo stesso salvacondotto alle altre nazioni.

    Lo stesso concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, concede a tutti e singoli quegli altri che non hanno comunione di fede con noi, a qualsiasi regno, provincia, città, luogo appartengano, e in cui pubblicamente ed impunemente si predica, si insegna si crede diversamente da quanto ritiene la santa chiesa Romana, il salvacondotto nella stessa forma e con le stesse parole, con cui viene concesso ai Tedeschi.



    SESSIONE XIX (14 maggio 1562)

    Si rimanda la pubblicazione dei decreti.

    Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, ha creduto bene, per alcuni giusti e ragionevoli motivi, prorogare - e di fatto proroga - fino alla feria quinta dopo la solennità del corpo di Cristo, che sarà il 4 giugno, quei decreti, che avrebbero dovuto essere approvati oggi nella presente sessione; e notifica a tutti che in quel giorno debba tenersi e celebrarsi la sessione.

    Intanto bisogna pregare Dio e Padre del Signore nostro, autore della pace, perché voglia santificare i cuori di tutti, perché col suo aiuto il santo sinodo possa, ora e sempre, meditare a condurre a termine quelle cose che riguardano la sua lode e la sua gloria.



    SESSIONE XX (5 giugno 1562)

    Si proroga la pubblicazione dei decreti alla futura sessione, che viene indetta.

    Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della santa sede, a causa di varie difficoltà, sorte per diversi motivi, ed anche perché ogni cosa proceda del tutto come si conviene e con maggiore approfondimento e cioè perché le definizioni dommatiche siano trattate ed approvate assieme a quello che riguarda la riforma, ha deciso che ciò che si dovrà stabilire, sia in materia di riforma che in materia dottrinale, debba essere definito nella prossima sessione, che indice per il giorno 16 del prossimo mese di luglio.

    Lo stesso santo sinodo potrà liberamente abbreviare o prorogare questo termine a suo arbitrio e volontà, come comprenderà essere utile all’andamento del concilio, anche in congregazione generale.



    SESSIONE XXI (16 giugno 1562)

    Dottrina della comunione sotto le due specie e dei fanciulli.

    Proemio

    Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dei medesimi legati della sede apostolica, poiché per le arti dell’iniquissimo demonio sono state messe in giro, in diversi luoghi, cose mostruose sull’adorabile e santissimo sacramento dell’eucarestia, per cui in alcune province molti sembrano essersi allontanati dalla fede e dall’obbedienza della chiesa cattolica, crede che a questo punto debbano esporsi le verità che riguardano la comunione sotto le due specie e la comunione dei fanciulli.

    Esso, quindi, proibisce assolutamente a tutti i fedeli cristiani di osare di credere, insegnare, predicare diversamente, in seguito, su questi argomenti, da quanto è stato spiegato e definito con questi decreti.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:04 pm

    Capitolo I.

    I laici e i chierici che non celebrano non sono obbligati per disposizione divina a comunicarsi sotto le due specie.

    Dichiara, dunque, ed insegna, lo stesso santo sinodo, istruito dallo Spirito santo, - che è spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di pietà (321) -, ed attenendosi al giudizio e all’uso della chiesa stessa, che i laici e i chierici che non celebrano, non sono obbligati da nessun precetto divino a ricevere il sacramento dell’eucarestia sotto le due specie, e che non si può assolutamente dubitare (senza diminuzione per la fede) che basti ad essi, per la salvezza, la comunione sotto una sola specie.

    Poiché, anche se Cristo signore, nell’ultima cena istituì e diede agli apostoli questo sacramento sotto le specie del pane e del vino, non è detto, però, che quella istituzione e quella consegna voglia significare che tutti i fedeli per istituzione del Signore siano obbligati a ricevere l’una e l’altra specie.

    Che poi la comunione sotto entrambe le specie sia comandata dal Signore, non si deduce neppure dal discorso di Giov. VI, comunque esso, secondo le varie interpretazioni dei santi padri e dottori, debba intendersi. Infatti, chi disse: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi, disse pure: Se qualcuno mangerà di questo pane, vivrà in eterno (322). E Chi disse: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna (323), disse anche: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo; e finalmente chi disse: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui (324), disse, tuttavia: Chi mangia questo pane, vive in eterno (325).

    Capitolo II.

    Il potere della chiesa circa la distribuzione del sacramento dell’eucarestia.

    Il concilio dichiara, inoltre, che la chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire e mutare nella distribuzione dei sacramenti, salva la loro sostanza, quegli elementi che ritenesse di maggiore utilità per chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti, a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi. Cosa che l’apostolo sembra accennare chiaramente, quando dice: La gente ci ritenga servi di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (326). Ed è abbastanza noto che egli stesso si è servito di questo potere, sia in molte altre circostanze (327) che in relazione a questo stesso sacramento, quando, date alcune disposizioni circa l’uso di esso: Il resto, dice, lo disporrò quando verrò (328).

    Perciò la santa madre chiesa, consapevole di questo suo potere nell’amministrazione dei sacramenti, anche se all’inizio della religione cristiana l’uso delle due specie non era stato infrequente, col progredire del tempo, tuttavia, mutato in larghissima parte della chiesa quell’uso, spinta da gravi e giusti motivi, approvò la consuetudine di dare la comunione solo sotto una sola specie e credette bene farne una legge, che non è lecito riprovare o cambiare a proprio capriccio, senza l’autorità della stessa chiesa.

    Capitolo III.

    Sotto ognuna delle due specie si riceve Cristo tutto intero e il vero sacramento.

    Il concilio dichiara, inoltre, che quantunque il nostro Redentore, com’è stato detto poco fa, abbia istituito e dato agli apostoli, nell’ultima cena, questo sacramento sotto due specie, bisogna tuttavia confessare che anche sotto una sola specie si riceve Cristo tutto intero e il vero sacramento, e che, per quanto riguarda il frutto, quelli che ricevono una sola specie non vengono defraudati di nessuna grazia necessaria alla salvezza.

    Capitolo IV.

    I piccoli non sono obbligati alla comunione sacramentale.

    Finalmente lo stesso santo sinodo insegna che i bambini che non hanno l’uso della ragione, non sono obbligati da alcuna necessità alla comunione sacramentale dell’eucarestia. Rigenerati, infatti, dal lavacro del battesimo (329) e incorporati a Cristo, non possono, a quell’età, perdere la grazia di figli di Dio, che hanno acquistato.

    Non si deve, tuttavia, condannare l’antichità, se in qualche luogo ha conservato quest’uso. Come, infatti, quei padri santissimi dovettero avere un motivo plausibile, per l’indole di quei tempi, che giustificasse il loro modo d’agire, così bisogna credere che, senza dubbio, hanno agito in tal modo, senza pensare affatto che ciò fosse necessario alla salvezza.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:04 pm

    CANONI SULLA COMUNIONE SOTTO LE DUE SPECIE E SULLA COMUNIONE DEI FANCIULLI

    1. Se qualcuno dirà che tutti e singoli i fedeli cristiani devono ricevere l’una e l’altra specie del santissimo sacramento dell’eucarestia per divino precetto o perché sia necessario alla salvezza, sia anatema.

    2. Chi dirà che la santa chiesa cattolica non sia stata addotta da giuste ragioni e da giusti motivi, a dare la comunione ai laici e a quei sacerdoti che non celebrano sotto una specie soltanto o che in ciò essa erri, sia anatema.

    3. Se qualcuno negherà che sotto la sola specie del pane si riceve Cristo, fonte ed autore di tutte le grazie, tutto intero perché, come alcuni dicono falsamente, non è ricevuto sotto l’una e l’altra specie, secondo l’istituzione di Cristo, sia anatema.

    4. Se qualcuno dirà che la comunione eucaristica è necessaria ai bambini anche prima che abbiano raggiunto l’età di ragione, sia anatema.

    Quanto ai due articoli, già proposti, ma non esaminati, e cioè: "Se i motivi da cui fu indotta la chiesa cattolica per dare la comunione ai laici e a quei sacerdoti che non celebrano solo sotto una specie, siano da considerarsi tali da non permettere ad alcuno l’uso del calice per alcuna ragione"; e: "Se, qualora sembrasse opportuno doversi concedere ad alcuna nazione o regno, per motivi giusti e conformi alla cristiana carità, l’uso del calice, debba concedersi sotto alcune condizioni: e quali siano queste condizioni", lo stesso santo sinodo ne rimanda l’esame e la conferma ad altro tempo, alla prima occasione, cioè, che ad esso si presenterà.



    Decreto di riforma.

    Introduzione

    Lo stesso sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, a lode di Dio onnipotente e a gloria della santa chiesa cattolica, crede bene stabilire, al presente, quanto segue, sul problema della riforma.

    Canone I

    Poiché dall’ordine ecclesiastico deve esulare qualsiasi sospetto di avarizia, i vescovi e gli altri che conferiscono gli ordini o i loro rappresentanti, anche se venisse offerto spontaneamente, non devono ricevere nulla con nessun pretesto; per il conferimento di qualunque ordine, - anche per la tonsura clericale -, per le lettere dimissorie o testimoniali, per il sigillo o per qualsiasi altro motivo.

    Quanto ai notai, solo in quei posti dove non vi è la lodevole consuetudine di non prendere nulla, potranno ricevere per ogni lettera dimissoria o testimoniale la decima parte di uno scudo d’oro, purché non vi sia, già stabilito, un salario, per l’esercizio del loro ufficio. Né al vescovo potrà provenire su quanto percepisce il notaio un qualche guadagno, direttamente o indirettamente, per il conferimento degli ordini. Essi dovranno prestare la loro opera del tutto gratuitamente. Altrimenti il sinodo annulla e proibisce assolutamente le tasse, gli statuti, le consuetudini contrarie, anche immemorabili, che possono piuttosto essere chiamate abusi e corruzioni, e che favoriscono la triste simonia.

    Quelli che agissero diversamente, sia col dare che col ricevere, oltre la divina vendetta, incorrano ipso facto nelle pene stabilite dal diritto.

    Canone II

    Poiché non è conveniente che quelli che sono entrati al servizio di Dio, con disonore del loro ordine debbano mendicare o esercitare un mestiere ignobile come mezzo di guadagno e poiché è noto che moltissimi, in moltissime parti, vengono ammessi ai sacri ordini senza alcuna selezione, ed affermano, con arti e menzogne, di avere un beneficio ecclesiastico o mezzi sufficienti, il santo sinodo stabilisce che in futuro nessun chierico secolare, anche se adatto per costumi, scienza ed età, venga promosso ai sacri ordini, se prima non risulti legittimamente che egli ha il pacifico possesso di un beneficio ecclesiastico, che gli sia sufficiente per un onesto sostentamento.

    Né potrà rinunziare a questo beneficio, se non facendo menzione che è stato promosso a titolo di quel beneficio; e la rinunzia non sia accettata, se non risulterà che possa vivere tranquillamente con altri mezzi; altrimenti la rinunzia sia nulla.

    Quanto a quelli che hanno un patrimonio o una pensione, non potranno essere ordinati, in futuro, se non quelli che il vescovo giudicherà doversi assumere per la necessità o per la comodità delle sue chiese e non senza essersi prima ben assicurato che quel patrimonio e quella pensione essi li hanno davvero, e che sono sufficienti a sostentarli. Questi, inoltre, non potranno, in seguito, esser alienati, o estinti, o ceduti in alcun modo senza licenza del vescovo, fino a che non abbiano avuto un beneficio ecclesiastico sufficiente, o abbiano donde possono vivere. In ciò si rinnovano le pene degli antichi canoni.

    Canone III

    Dato che i benefici sono stati costituiti per assicurare il culto divino e compiere i doveri ecclesiastici, perché in nessun modo il culto divino languisca, ma gli venga reso il dovuto rispetto in ogni cosa, questo santo sinodo stabilisce che nelle chiese, sia cattedrali che collegiate, in cui non vi sono distribuzioni quotidiane o in cui siano talmente esigue da essere probabilmente trascurate, vi si debba destinare la terza parte dei frutti e di qualsiasi provento ed introito, tanto delle dignità che dei canonicati, dei personati, delle porzioni e degli uffici e si debba trasformare in distribuzioni quotidiane. Queste saranno divise proporzionalmente fra quelli che hanno le dignità e gli altri presenti ai divini uffici, secondo la divisione che dovrà essere fatta dal vescovo, anche come delegato della sede apostolica, in occasione della prima percezione dei frutti. Restano salve, naturalmente, le consuetudini di quelle chiese, nelle quali quelli che non risiedono o che non servono nei divini uffici, non percepiscono nulla o meno di un terzo. Tutto ciò, non ostante qualsiasi esenzione, qualsiasi altra consuetudine, anche immemorabile e qualsiasi appello. Qualora la contumacia di quelli che non servono cresca, sia lecito procedere contro di essi secondo quanto dispongono il diritto e i sacri canoni.

    Canone IV

    I vescovi, anche come delegati della sede apostolica, in tutte le chiese parrocchiali, o battesimali, nelle quali il popolo è talmente numeroso, che un solo rettore non basta ad amministrare i sacramenti della chiesa e a compiere il culto divino, costringano i rettori o gli altri, a cui tocca, ad associarsi tanti sacerdoti, in questo ufficio, quanti siano sufficienti a dare i sacramenti e a compiere il servizio divino.

    In quelle chiese, poi, nelle quali per la distanza o la difficoltà dei luoghi i parrocchiani non possono recarsi a ricevere i sacramenti o ad assistere ai divini uffici se non con grande incomodo, anche se i pastori fossero contrari, possono costituire nuove parrocchie, secondo quanto prescrive la costituzione di Alessandro III, che inizia con le parole: Ad audientiam. A quei sacerdoti, inoltre, che per la prima volta devono esser preposti alle chiese di nuova erezione, venga assegnata, a giudizio del vescovo, una giusta porzione dei frutti, che in qualsiasi modo appartengono alla chiesa madre. Se fosse necessario, potrà costringere il popolo a provvedere a ciò che è necessario per il sostentamento di questi sacerdoti, non ostante qualsiasi riserva, generale o particolare su queste chiese. Queste ordinazioni, inoltre, ed erezioni non potranno esser tolte o impedite da qualsiasi provvista, anche in forza di una rinuncia o di qualsiasi altra deroga o sospensione.

    Canone V

    Perché anche lo stato delle chiese, in cui si compiono gli uffici divini, sia conservato decorosamente, i vescovi, anche come delegati della santa sede, - nella forma del diritto e senza pregiudizio di chi le ha - potranno fare unioni perpetue di qualsiasi chiesa parrocchiale e battesimale e di altri benefici, con o senza cura d’anime, con altri benefici curati, a causa della loro povertà e negli altri casi permessi dal diritto, anche se tali chiese o benefici fossero riservati in modo generico o specifico.

    Queste unioni non potranno neppure esser revocate o in qualche modo infrante, in forza di qualsiasi provvista, anche a motivo di rinunzia, di deroga, o di sospensione.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:05 pm

    Canone VI

    Poiché i rettori di chiese illetterati ed imperiti sono meno adatti ai divini uffici ed altri, per la loro vita disonesta, piuttosto che edificare distruggono, i vescovi, in quanto delegati della sede apostolica, potranno assegnare a quelli che sono illetterati ed imperiti - se, d’altronde, conducono vita onesta - dei coadiutori o dei vicari temporanei e destinare ad essi parte dei frutti per un onesto sostentamento, o provvedere ad essi in altro modo, senza alcuna ammissione d’appello o di esenzione.

    Reprimano, invece, e castighino, dopo averli ammoniti, quelli che vivono disonestamente e scandalosamente. Se poi continuassero, incorreggibili, nella loro malvagità, avranno facoltà di privarli dei loro benefici, secondo le prescrizioni dei sacri canoni, senza alcuna possibilità di appello e di esenzione.

    Canone VII

    Bisogna avere molta cura anche di questo: che ciò che è destinato ai sacri ministeri, col passare del tempo non vada affievolendo e non se ne perda dagli uomini la memoria. Quindi i vescovi, anche in qualità di delegati della sede apostolica, potranno trasferire a loro volontà i benefici semplici - anche di diritto di patronato, - da quelle chiese che per vecchiezza od altro motivo fossero andate in rovina e non potessero per mancanza di mezzi essere restaurate, alle chiese madri o ad altre chiese degli stessi luoghi o di luoghi vicini, dopo aver convocato quelli cui la cosa interessa. In queste chiese erigano altari e cappelle sotto le stesse invocazioni o li trasferiscano in altari o cappelle già erette, con tutti gli emolumenti e gli oneri, che gravavano sulle chiese originarie.

    Procurino anche di rifare e di restaurare le chiese parrocchiali cadute, anche se fossero di diritto di patronato, ciò, coi frutti e proventi di qualsiasi natura, che in qualsiasi modo appartengono alle stesse chiese. Se questi non bastassero, inducano con ogni mezzo opportuno tutti i patroni e quelli che percepiscono qualche frutto da queste chiese, o, in mancanza di questi, i loro parrocchiani, perché compiano questo loro dovere, senza che si possa addurre alcun appello, esenzione o altra cosa in contrario.

    Nel caso che tutti fossero molto poveri, siano trasferiti alle chiese madri o a quelle più vicine, con facoltà di destinare tanto le suddette chiese parrocchiali, quanto le altre che fossero in cattivo stato, ad usi profani, ma non ignobili, lasciandovi una croce.

    Canone VIII

    È giusto che tutto quello che riguarda il culto di Dio nella diocesi debba essere curato dall’ordinario e, se necessario, da lui provveduto.

    Ogni anno, quindi, i monasteri dati in commenda, chiamati anche abbazie, priorati, prepositure, in cui non fiorisce l’osservanza della regola, ed inoltre i benefici, sia con cura d’anime che senza, secolari e regolari in qualsivoglia maniera dati in commenda, anche esenti, siano visitati dai vescovi, anche in qualità di delegati della sede apostolica.

    Curino pure, gli stessi vescovi, con opportuni rimedi, anche col sequestro dei frutti, che le cose che hanno bisogno di rinnovamento o di restauro, siano rifatte, e chela cura delle anime, se fosse annessa ad esse o a quello che con esse è connesso, ed altri doveri inerenti siano esattamente soddisfatti, non ostante qualsiasi appello, privilegio, consuetudini, - anche prescritte ab immemorabili, - qualsiasi diritto dei conservatori, decisione e proibizione dei giudici.

    Se in essi, invece, fosse viva la osservanza delle regole, i vescovi facciano in modo, che i superiori di tali regolari conducano la vita conforme alle loro regole e le facciano osservare e tengano a freno, nel compimento del dovere, i loro dipendenti e li guidino. E se, dopo essere stati ammoniti, non li visitassero entro sei mesi e non li correggessero, allora gli stessi vescovi, anche come delegati della sede apostolica, potranno visitarli e correggerli, come potrebbero farlo gli stessi superiori secondo le loro regole. Ogni appello, privilegio, esenzione sarà impossibile e non servirà a nulla.

    Canone IX

    Dai diversi concili anteriori: dal Lateranense (330), da quello di Lione, da quello di Vienne (331), sono stati decisi molti rimedi contro gli indegni abusi dei raccoglitori di elemosine. Questi, però, in seguito, sono stati resi inutili, anzi si deve constatare che la loro malizia cresce talmente ogni giorno, con scandalo enorme e lamentele di tutti i fedeli, da doversi disperare assolutamente che possano in qualunque modo correggersi.

    Si stabilisce, perciò che d’ora in poi, in qualsiasi parte del mondo cristiano sia del tutto abolito il loro nome e l’uso e che in nessun modo sia permesso di esercitare questo ufficio, non ostante i privilegi concessi alle chiese, ai monasteri, agli ospedali, ai luoghi pii, e a qualsiasi persona, di qualunque grado, stato e dignità e non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile.

    Quanto alle indulgenze e ad altre grazie spirituali, di cui non per questo i fedeli cristiani devono esser privati, si dispone che in avvenire debbano esser pubblicate dagli ordinari del luogo al popolo a tempo debito, servendosi d due membri del capitolo, cui viene data anche la facoltà di raccogliere con scrupolo le elemosine e gli aiuti della carità che vengono loro offerti, senza ricevere affatto alcun compenso. Così intenderanno tutti, veramente, che questi celesti tesori della chiesa vengono usati non per guadagno, ma per alimento della pietà.

    Decreto di indizione della futura sessione.

    Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, ha stabilito e disposto che la prossima futura sessione debba tenersi e celebrarsi il giovedì dopo l’ottava della festa della natività della beata Maria vergine, che sarà il giorno 17 del mese di settembre prossimo futuro.

    Ciò, tuttavia, si deve intendere nel senso che esso possa ed abbia facoltà di poter abbreviare o prolungare liberamente a suo arbitrio e volontà questo termine e quello che sarà assegnato in futuro ad ogni sessione, anche in una congregazione generale, come crederà utile all’andamento del concilio.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:05 pm

    SESSIONE XXII (17 settembre 1562)

    Dottrina e canoni sul santissimo sacrificio della messa.

    Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, perché sia mantenuta nella chiesa cattolica e conservata nella sua purezza l’antica, assoluta, e sotto qualsiasi aspetto perfetta dottrina del grande mistero dell’eucarestia contro gli errori e le eresie, illuminato dallo Spirito santo, insegna, dichiara e intende che su essa, come vero e singolare sacrificio, sia predicato ai popoli cristiani quanto segue.

    Capitolo I

    Poiché sotto l’antico testamento (secondo la testimonianza dell’apostolo Paolo (332)) per l’insufficienza del sacerdozio levitico, non vi era perfezione, fu necessario - e tale fu la disposizione di Dio, padre delle misericordie, - che sorgesse un altro sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech, e cioè il signore nostro Gesù Cristo, che potesse condurre ad ogni perfezione tutti quelli che avrebbero dovuto essere santificati. Questo Dio e Signore nostro, dunque, anche se una sola volta (333) si sarebbe immolato sull’altare della croce, attraverso la morte, a Dio Padre, per compiere una redenzione eterna; perché, tuttavia, il suo sacerdozio non avrebbe dovuto tramontare con la morte, nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito (334), per lasciare alla chiesa, sua amata sposa, un sacrificio visibile (come esige l’umana natura), con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una sola volta sulla croce, prolungandone la memoria fino alla fine del mondo, e la cui efficacia salutare fosse applicata alla remissione di quelle colpe che ogni giorno commettiamo; egli, dunque, dicendosi costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech (335), offrì a Dio padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino, e lo diede, perché lo prendessero, agli apostoli (che in quel momento costituiva sacerdoti del nuovo testamento) sotto i simboli delle stesse cose (del pane, cioè, e del vino), e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio che l’offrissero, con queste parole: Fate questo in memoria di me (336), ecc., come sempre le ha intese ed ha insegnato la chiesa cattolica.

    Celebrata, infatti, l’antica Pasqua, - che la moltitudine dei figli di Israele immolava in ricordo dell’uscita dall’Egitto -, istituì la nuova Pasqua, e cioè se stesso, da immolarsi dalla chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti sotto segni visibili, in memoria del suo passaggio da questo mondo al Padre, quando ci redense con l’effusione del suo sangue, ci strappò al potere delle tenebre e ci trasferì nel suo regno (337).

    Ed è questa quell’offerta pura, che non può essere contaminata da nessuna indegnità o malizia di chi la offre; che il Signore per mezzo di Malachia (338) predisse che sarebbe stata offerta in ogni luogo, pura, al suo nome che sarebbe stato grande fra le genti; e a cui non oscuramente sembra alludere l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinti, quando dice (339): che non possono divenire partecipi della mensa del Signore, quelli che si sono contaminati, partecipando alla mensa dei demoni. E per "mensa" nell’uno e nell’altro luogo intende (certamente) l’altare.

    Questa, finalmente, è quella che al tempo della natura e della legge, era raffigurata con le diverse varietà dei sacrifici: essa che raccoglie in sé tutti i beni significati da quei sacrifici, come perfezionamento e compimento di tutti essi.

    Capitolo II

    E poiché in questo divino sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si immolò una sola volta cruentemente sull’altare della croce, il santo sinodo insegna che questo sacrificio è veramente propiziatorio, e che per mezzo di esso - se di vero cuore e con retta fede, con timore e riverenza ci avviciniamo a Dio contriti e pentiti - noi possiamo ottenere misericordia e trovare grazia in un aiuto propizio (340).

    Placato, infatti, da questa offerta, il Signore, concedendo la grazia e il dono della penitenza, perdona i peccati e le colpe anche gravi. Si tratta, infatti, della stessa, identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per mezzo dei sacerdoti, egli che un giorno si offrì sulla croce. Diverso è solo il modo di offrirsi. E i frutti di quella oblazione (di quella cruenta) vengono percepiti abbondantemente per mezzo di questa, incruenta, tanto si è lontani dal pericolo che con questa si deroghi a quella.

    È per questo motivo che giustamente, secondo la tradizione degli apostoli, essa viene offerta non solo per i peccati, le pene, le soddisfazioni ed altre necessità dei fedeli viventi, ma anche per i fedeli defunti in Cristo, non ancora del tutto purifrcati.

    Capitolo III

    E quantunque la chiesa usi talvolta offrire messe in onore e in memoria dei santi, essa, tuttavia, insegna che non ad essi viene offerto il sacrificio, ma solo a Dio, che li ha coronati.

    Per cui, il sacerdote non è solito dire: Offro a te il sacrificio, Pietro e Paolo (341); ma ringrazio Dio per le loro vittorie, chiede il loro aiuto: perché vogliano intercedere per noi in cielo, coloro di cui celebriamo la memoria qui, sulla terra (342).

    Capitolo IV

    E poiché le cose sante devono essere trattate santamente, e questo è il sacrificio più santo, la chiesa cattolica, perché esso potesse essere offerto e ricevuto degnamente e con riverenza, ha stabilito da molti secoli il sacro canone (343), talmente puro da ogni errore, da non contenere niente, che non profumi estremamente di santità e di pietà, e non innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono, formato com’è dalle parole stesse del Signore, da quanto hanno trasmesso gli apostoli e istituito piamente anche i santi pontefici.

    Capitolo V

    E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.

    Capitolo VI

    Desidererebbe certo, il sacrosanto sinodo, che in ogni messa i fedeli che sono presenti si comunicassero non solo con l’affetto del cuore, ma anche col ricevere sacramentalmente l’eucarestia, perché potesse derivarne ad essi un frutto più abbondante di questo santissimo sacrificio.

    E tuttavia, se ciò non sempre avviene, non per questo essa condanna come private e illecite quelle messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica sacramentalmente, ma le approva e quindi le raccomanda, dovendo ritenersi anche quelle, messe veramente comuni, sia perché il popolo in esse si comunica spiritualmente, sia perché vengono celebrate dal pubblico ministro della chiesa, non solo per sé, ma anche per tutti i fedeli, che appartengono al corpo di Cristo.

    Capitolo VII

    Il santo sinodo ricorda poi, che la chiesa ha comandato che i sacerdoti mischiassero dell’acqua col vino, nell’offrire il calice, sia perché si ritiene che Cristo signore abbia fatto così e poi anche perché dal suo fianco uscì insieme acqua e sangue (344): mistero che si commemora con questa mescolanza.

    E poiché con le acque, nell’apocalisse del beato Giovanni vengono indicati i popoli (345), con ciò viene rappresentata l’unione dello stesso popolo fedele col capo, Cristo.

    Capitolo VIII

    Anche se la messa contiene abbondante materia per l’istruzione del popolo cristiano, tuttavia non è sembrato opportuno ai padri che dovunque essa fosse celebrata nella lingua del popolo.

    Pur ritenendo, quindi, dappertutto l’antico rito di ogni chiesa, approvato dalla santa chiesa Romana, madre e maestra di tutte le chiese, perché, però, le pecore di Cristo non muoiano di fame, e i fanciulli chiedano il pane senza che vi sia chi possa loro spezzarlo (346), il santo sinodo comanda ai pastori e a tutti quelli che hanno la cura delle anime, di spiegare frequentemente, durante la celebrazione delle messe, personalmente o per mezzo di altri, qualche cosa di quello che si legge nella messa e, tra le altre cose, qualche verità di questo santissimo sacrificio, specie nei giorni di domenica e festivi.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:05 pm

    Capitolo IX

    Ma poiché in questo tempo sono stati disseminati molti errori, e molte cose si insegnano e vengano disputate da molti contro questa antica fede, fondata nel sacrosanto vangelo, sulle tradizioni degli apostoli e sulla dottrina dei santi padri, il sacrosanto sinodo, dopo molte e gravi discussioni su queste questioni, fatte con matura riflessione, per consenso unanime di tutti i padri ha stabilito di condannare ciò che è contrario a questa purissima fede e sacra dottrina e di eliminarlo dalla chiesa, con i canoni che seguono.



    CANONI SUL SANTISSIMO SACRIFICIO DELLA MESSA

    1. Se qualcuno dirà che nella messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, o che essere offerto non significa altro se non che Cristo ci viene dato a mangiare, sia anatema.

    2. Se qualcuno dirà che con quelle parole: Fate questo in memoria di me (347), Cristo non ha costituito i suoi apostoli sacerdoti o che non li ha ordinati perché essi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo e il suo sangue, sia anatema.

    3. Se qualcuno dirà che il sacrificio della messa è solo un sacrificio di lode e di ringraziamento, o la semplice commemorazione del sacrificio offerto sulla croce, e non propiziatorio; o che giova solo a chi lo riceve; e che non si deve offrire per i vivi e per i morti, per i peccati, per le pene, per le soddisfazioni, e per altre necessità, sia anatema.

    4. Se qualcuno dirà che col sacrificio della messa si bestemmia contro il sacrificio di Cristo consumato sulla croce; o che con esso si deroga all’onore di esso, sia anatema.

    5. Chi dirà che celebrare messe in onore dei santi e per ottenere la loro intercessione presso Dio, come la chiesa intende, è un’impostura, sia anatema.

    6. Se qualcuno dirà che il canone della messa contiene degli errori, e che, quindi, bisogna abolirlo, sia anatema.

    7. Se qualcuno dirà che le cerimonie, le vesti e gli altri segni esterni, di cui si serve la chiesa cattolica nella celebrazione delle messe, siano piuttosto elementi adatti a favorire l’empietà, che manifestazioni di pietà, sia anatema.

    8. Se qualcuno dirà che le messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica sacramentalmente, sono illecite e, quindi, da abrogarsi, sia anatema.

    9. Se qualcuno dirà che il rito della chiesa Romana, secondo il quale parte del canone e le parole della consacrazione si profferiscono a bassa voce, è da riprovarsi; o che la messa debba essere celebrata solo nella lingua del popolo; o che nell’offrire il calice non debba esser mischiata l’acqua col vino, perché ciò sarebbe contro l’istituzione di Cristo, sia anatema.



    Decreto su ciò che bisogna osservare ed evitare nella celebrazione delle messe.

    Quanta cura sia necessaria, perché il sacrosanto sacrificio della messa sia celebrato con ogni religiosità e venerazione, ognuno potrà facilmente capirlo, se rifletterà che nella sacra scrittura viene detto ‘maledetto’ chi compie l’opera di Dio con negligenza (348) E Se dobbiamo confessare che nessun’altra azione possa essere compiuta dai fedeli cristiani così santa e così divina, come questo tremendo mistero, con cui dai sacerdoti ogni giorno si immola a Dio sull’altare quell’ostia vivificante, per la quale siamo stati riconciliati con Dio padre, appare anche chiaro che si deve usare ogni opera e diligenza, perché esso venga celebrato con la più grande mondezza e purezza interiore del cuore, e con atteggiamento di esteriore devozione e pietà.

    E poiché, sia per colpa del tempo che per negligenza e malvagità degli uomini, si sono introdotti molti elementi

    alieni dalla dignità di un tanto sacramento, perché sia restituito il dovuto onore e culto, a gloria di Dio e ad edificazione del popolo fedele, questo santo sinodo stabilisce che i vescovi ordinari si diano cura e siano tenuti a proibire e a togliere di mezzo tutto ciò che hanno introdotto o l’avarizia, che è servizio degli idoli (349), o l’irriverenza, che si può difficilmente separare dall’empietà, o la superstizione, falsa imitazione della vera pietà.

    E, per dirla in breve, prima di tutto - per quanto riguarda l’avarizia, - essi proibiscano assolutamente qualsiasi compenso, i patti e tutto ciò che viene dato per celebrare le nuove messe; ed inoltre quelle, più che richieste, importune e grette esazioni di elemosine; ed altre cose simili, che non sono molto lontane, se non proprio dalla macchia della simonia, certo da traffici volgari.

    In secondo luogo, per evitare l’irriverenza, ognuno, nella sua diocesi, proibisca che qualsiasi prete girovago e sconosciuto possa celebrare la messa. A nessuno, inoltre, che abbia commesso un delitto pubblico e notorio, permettano che possa servire al santo altare, o assistere alla santa messa; e neppure che in case private, e, in genere, fuori della chiesa e degli oratori destinati solo al culto divino da designarsi e visitarsi dagli ordinari - questo santo sacrificio sia celebrato da qualsiasi secolare o regolare, e senza che prima i presenti, in atteggiamento composto, mostrino di assistere non solo col corpo, ma anche con la mente e con affetto devoto del cuore.

    Bandiscano, poi, dalle chiese quelle musiche in cui, con l’organo o col canto, si esegue qualche cosa di meno casto e di impuro; e similmente tutti i modi secolari di comportarsi, i colloqui vani e, quindi, profani, il camminare, il fare strepito, lo schiamazzare, affinché la casa di Dio sembri, e possa chiamarsi davvero, casa di preghiera (350).

    Da ultimo, perché non si dia occasione di superstizione, con editto e con minacce di pene facciano in modo che i sacerdoti non celebrino se non nelle ore stabilite e che nella celebrazione delle messe non seguano riti o cerimonie, e dicano preghiere diverse da quelle che sono state approvate dalla chiesa e accettate da un uso consueto e lodevole. Tengano lontano assolutamente dalla chiesa l’uso di un certo numero di messe e di candele, inventato più da un culto superstizioso, che dalla vera religione. E insegnino al popolo quale sia e da che principalmente provenga il frutto così celeste e così prezioso di questo santissimo sacrificio.

    Lo ammoniscano anche che si rechi frequentemente nella propria parrocchia, almeno nei giorni di domenica e nelle feste più solenni.

    Tutte queste cose, che abbiamo sommariamente enumerato, vengono proposte a tutti gli ordinari in tal modo, che non solo esse, ma qualsiasi altra cosa che abbia attinenza con quanto veniamo dicendo, con quel potere che ad essi viene conferito dal sacrosanto sinodo ed anche come delegati della sede apostolica, essi le proibiscano, le comandino, le correggano, le stabiliscano, e spingano il popolo fedele ad osservarle inviolabilmente con le censure ecclesiastiche e con altre pene, che potranno essere stabilite a loro giudizio. Tutto ciò, non ostante i privilegi, le esenzioni; gli appelli e le consuetudini di qualsiasi natura.

    Decreto ai riforma.

    Lo stesso sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede apostolica, perché l’opera della riforma prosegua, ha creduto bene, nella presente sessione, di stabilire quanto segue.

    Canone I

    Non vi è altra cosa che spinga più assiduamente e maggiormente gli altri alla pietà e al culto di Dio, della vita e dell’esempio di coloro che si sono dedicati al divino ministero. Vedendoli, infatti, sollevati dalle cose del mondo su di un mondo più alto, gli altri guardano ad essi come ad uno specchio e da essi traggono l’esempio da imitare. È assolutamente necessario, perciò, che i chierici, chiamati ad avere Dio in sorte, diano alla loro vita, ai loro costumi, al loro abito, al loro modo di comportarsi, di camminare, di parlare e a tutte le altre loro azioni, un tono tale, da non presentare nulla che non sia grave, moderato, e pieno di religiosità. Fuggano anche le mancanze leggere, che in essi sembrerebbero grandissime, perché le loro azioni possano ispirare a tutti venerazione.

    Quanto più queste cose sono di utilità e di ornamento nella chiesa di Dio, tanto più devono osservarsi diligentemente. Il santo sinodo dispone pertanto che i provvedimenti che in altro tempo furono presi salutarmente e abbondantemente dai sommi pontefici e dai sacri concili circa la vita, l’onestà, la cultura, la dottrina dei chierici, o quanto stabilirono doversi evitare riguardo al lusso, ai banchetti, ai balli, ai dadi, ai giochi e a qualsiasi altra mancanza, ed anche alle occupazioni secolari, vengano osservati in futuro sotto la minaccia delle stesse pene, o magari anche più gravi, a giudizio dell’ordinario. L’appello non potrà sospendere l’esecuzione di questo decreto, che riguarda la correzione dei costumi. Se poi si accorgessero che qualcuna di queste prescrizioni è andata in desuetudine, facciano di tutto per richiamarle in uso e perché siano osservate diligentemente da tutti. Tutto ciò, non ostante qualsiasi consuetudine, perché non debbano essi stessi scontare una pena adeguata, testimone Dio, per la trascuratezza nel correggere i sudditi.

    Canone II

    Chiunque, in futuro, sarà eletto alle chiese cattedrali, non solo dovrà esser pienamente in regola per ciò che riguarda la nascita, l’età, i costumi, la vita e per tutti gli altri requisiti richiesti dai sacri canoni, ma dev’essere costituito nell’ordine sacro già da almeno sei mesi. Le informazioni relative, qualora non si abbiano affatto in curia o siano recenti, vengano assunte dai legati della sede apostolica o dai nunzi delle province, o dall’ordinario, o, in mancanza di questi, dagli ordinari più vicini.

    Oltre a queste qualità, egli abbia tale scienza da poter soddisfare a quanto richiede l’ufficio che gli si impone. Prima, quindi, dovrà essere stato meritatamente promosso maestro in una Università o dottore o licenziato in sacra teologia o in diritto canonico; o dovrà risultare idoneo ad insegnare agli altri da un pubblico attestato di qualche accademia. Se poi si trattasse di un religioso, dovrà avere un attestato simile dai superiori del suo ordine. Quelli cui si è accennato e da cui dovranno essere assunte queste informazioni o testimonianze, sono tenuti a fornirle fedelmente e gratuitamente. Diversamente, sappiano di aver un gran peso sulla coscienza e di andare incontro alla vendetta di Dio e dei loro superiori.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:05 pm

    Canone III

    I vescovi, anche come delegati della sede apostolica, potranno detrarre la terza parte dei frutti e dei proventi di qualsiasi natura di tutte le dignità, dei personati, degli uffici delle chiese cattedrali o collegiate, per le distribuizioni - da assegnarsi a loro arbitrio -; di modo che quelli che le hanno, qualora non adempiano personalmente il competente servizio di ogni giorno, secondo la forma che sarà prescritta dagli stessi vescovi, perdano la distribuzione di quel giorno, e non acquistino la proprietà di essa in nessun modo; ma sia destinata, se ne ha bisogno, alla fabbrica della chiesa, o ad altro luogo pio, ad arbitrio dell’ordinario.

    Qualora la loro contumacia cresca, procedano contro di essi secondo quanto stabiliscono i sacri canoni. Se a qualcuna delle dignità accennate non compete, nelle chiese cattedrali o collegiate, di diritto o per consuetudine, la giurisdizione, l’amministrazione, o un ufficio, ma vi siano in diocesi, fuori di città, cure d’anime alle quali voglia attendere colui che ha la dignità, in questo caso, per tutto il tempo in cui egli risiederà o compirà il suo ufficio di amministratore nella chiesa dov’è la cura d’anime, sia considerato come presente e come se assistesse ai divini uffici nelle chiese cattedrali o collegiate.

    Quanto veniamo dicendo deve intendersi stabilito per quelle chiese, nelle quali non vi è alcuna consuetudine o prescrizione, per cui le dignità che non soddisfano al loro ufficio perdano la terza parte dei suddetti frutti e proventi. Quanto stabiliamo, dovrà valere non ostante le consuetudini, anche immemorabili, le esenzioni, le costituzioni, anche se fossero state confermate con giuramento e da qualsiasi autorità.

    Canone IV

    Chiunque, addetto agli uffici divini in una chiesa cattedrale o collegiata, secolare o regolare, non abbia ricevuto almeno l’ordine del suddiaconato, non abbia in queste chiese voce in capitolo, anche se questo gli venga concesso dagli altri.

    Quelli, poi, che hanno dignità, personati, uffici, prebende, porzioni e qualsiasi altro beneficio in queste chiese, o che l’avranno in seguito, cui fossero annessi oneri vari, e cioè di dire o cantare la messa, il vangelo o le epistole, qualsiasi privilegio essi abbiano, di qualsiasi esenzione, prerogativa, nobiltà di famiglia essi godano, siano tenuti, cessando i giusto impedimento, a ricevere entro un anno gli ordini richiesti. Diversamente incorreranno nelle pene stabilite dalla costituzione del concilio di Vienne, che comincia: Ut ii, qui... (351), che si rinnova col presente decreto.

    E i vescovi li costringano ad esercitare personalmente questi ordini nei giorni stabiliti e a compiere tutti gli altri uffici che devono prestare per il culto divino, sotto minaccia delle stesse pene, ed anche di altre più gravi, da imporsi a loro giudizio. In futuro, poi, non venga fatta una provvista, se non a favore di quelli dei quali si conoscono per esperienza l’età e le altre doti richieste; altrimenti la provvista sia invalida.

    Canone V

    Le dispense da qualsiasi autorità concesse, se devono consegnarsi fuori della curia Romana, si rimettano agli ordinari di coloro che le hanno chieste.

    Quelle poi che si concedono come grazia, non sortiranno il loro effetto, se prima essi, come delegati della sede apostolica, sommariamente e in forma extra giudiziale, non avranno la certezza che le preghiere addotte non sono viziate dal difetto di reticenza o falsità.

    Canone VI

    Nelle commutazioni delle ultime volontà, - che non devono aver luogo se non per giusto e necessario motivo - i vescovi, come delegati della sede apostolica, sommariamente e senza formale giudizio, si accertino, prima che i predetti cambiamenti siano mandati ad esecuzione, che nelle suppliche addotte non è stato detto nulla con reticenza della verità o con la narrazione di cose false.

    Canone VII

    I legati e i nunzi apostolici, i patriarchi, i primati e metropoliti, negli appelli ad essi interposti in qualunque causa, sia nell’accogliere gli appelli stessi, sia nel concedere le difese dopo l’appello, sono tenuti ad osservare la forma ed il contenuto delle sacre costituzioni, e specialmente di quella di Innocenzo IV, che comincia: Romana (352). Qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, qualsiasi stile o privilegio in contrario, non serviranno a nulla. Altrimenti le inibizioni, i processi e quanto ne sia conseguito siano ipso iure nulli.

    Canone VIII

    I vescovi, anche come delegati della sede apostolica, nei casi concessi dal diritto, saranno gli esecutori di tutte le disposizioni pie, sia di quelle che sono espressione delle ultime volontà, che di quelle tra vivi. Abbiano la facoltà di visitare gli ospedali, i collegi di qualsiasi specie, le confraternite laicali, anche quelle che chiamano ‘scuole’ o con qualsiasi altro nome; non però quelle che sono sotto la immediata protezione dei re, senza loro espressa licenza.

    Per dovere d’ufficio, inoltre, e secondo le prescrizioni dei sacri canoni, essi s’informino delle elemosine dei monti di pietà o di carità, dei luoghi pii, comunque essi si chiamino, anche se la cura di questi pii luoghi sia affidata ai laici e godano del privilegio dell’esenzione; facciano eseguire tutto ciò che riguarda il culto di Dio e la salvezza delle anime, o che è stato istituito per il sostentamento dei poveri.

    Tutto ciò, non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, privilegio, o statuto.

    Canone IX

    Gli amministratori - sia ecclesiastici che laici - della fabbrica di qualsiasi chiesa, anche cattedrale, di un ospedale, di una confraternita, delle elemosine, dei monti di pietà, e di qualunque luogo pio, siano obbligati a rendere conto, ogni anno, all’ordinario della loro amministrazione, aboliti qualsiasi consuetudine e privilegio in contrario, a meno che, per caso, nella costituzione e nell’ordinamento di tale chiesa o fabbrica non sia stato disposto diversamente.

    Che se per consuetudine o per privilegio, o anche per qualche disposizione locale, si dovesse rendere conto ad altri, a ciò deputati, con questi sia chiamato anche l’ordinario. Deliberazioni prese diversamente saranno del tutto inutili per gli amministratori.

    Canone X

    Dato che dalla ignoranza dei notai sorgono molti danni e si ha l’occasione per molte liti, il vescovo, anche come delegato della sede apostolica, potrà rendersi conto, con un esame, della preparazione di qualsiasi notaio, anche se fosse stato creato per autorità apostolica, imperiale, o regia; e, qualora non li trovasse idonei, o anche quando essi mancassero nel loro ufficio, potrà togliere loro la facoltà di esercitare quell’ufficio nelle questioni, nelle liti, nelle cause ecclesiastiche e spirituali. Ciò, per sempre o temporaneamente. Né il loro appello potrà sospendere la proibizione dell’ordinario.

    Canone XI

    Se la cupidigia, radice di tutti i mali (353), dominasse talmente un chierico o un laico, - di qualsiasi dignità questi possa essere insignito, anche imperiale o regale, - da spingerlo, direttamente o per mezzo di altri, con la forza o con la minaccia, o anche mettendo di mezzo chierici o laici, con qualsiasi raggiro o colore, a volgere a propria utilità e ad usurpare le giurisdizioni, i beni, i censi, i diritti, anche feudali ed enfiteutici, i frutti, gli emolumenti o qualsiasi provento di una chiesa o di un beneficio qualsiasi, secolare o regolare, dei monti di pietà e di altri luoghi pii, che dovrebbero essere destinati alle necessità dei poveri e dei loro amministratori; e chi osasse impedire che vengano percepiti da coloro, cui per diritto spettano; questi sia scomunicato fino a che non abbia restituito completamente alla chiesa o al suo amministratore o al beneficiato le giurisdizioni, i beni, i diritti, i frutti, i redditi, di cui si è impadronito o che a lui in qualunque modo, anche per donazione per interposta persona, sono pervenuti; e che non abbia ricevuto l’assoluzione dal romano pontefice.

    Se poi egli fosse patrono di quella chiesa, sia perciò stesso privato del diritto di patronato, oltre alle pene già dette.

    Quel chierico poi, che architettasse questa indegna frode e usurpazione, o acconsentisse ad essa, sia sottoposto alle stesse pene, sia privato di qualsiasi beneficio, sia considerato inabile a qualsiasi altro beneficio, e sia sospeso dall’esercizio dei suoi ordini, anche dopo la completa soddisfazione e l’assoluzione, a giudizio del suo ordinario.

    Decreto sulla richiesta di concessione del calice.

    Lo stesso sacrosanto sinodo nella precedente sessione si riservò di esaminare e di definire, all’occasione, in altro tempo, due articoli, proposti in altra circostanza ed allora non ancora discussi; e cioè: ‘Se le ragioni da cui fu indotta la santa chiesa cattolica per dare la comunione ai laici, e ai sacerdoti non celebranti, sotto la sola specie del pane, debbano ritenersi tali, da non potersi permettere a nessuno, per nessun motivo, l’uso del calice’; e ‘Se dovendosi per motivi giusti e conformi alla cristiana carità concedere l’uso del calice ad una nazione o ad un regno, debba concedersi sotto alcune condizioni, e quali siano queste condizioni’.

    Ora, quindi, volendo che si provveda nel migliore modo possibile alla salvezza di quelli, per cui il calice viene richiesto, ha stabilito che tutta la faccenda venga rimessa al nostro santissimo signore il papa, come in realtà fa col presente decreto. Egli con la sua singolare prudenza, faccia quello che crederà utile alla cristianità, e salutare a quelli che chiedono l’uso del calice.

    Decreto sul giorno della futura sessione.

    Inoltre lo stesso sacrosanto sinodo Tridentino indice il giorno della futura sessione per la feria quinta dopo l’ottava della festa di tutti i santi, che sarà il giorno 12 del mese di novembre. In essa sarà deciso quanto riguarda il sacramento dell’ordine e il sacramento del matrimonio.


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    Note


    306. Cfr. Lc 21, 5.
    307. Cfr. Lc 1, 17.
    308. Cfr. Mal 4, 6.
    309. Cfr. Eb 13, 9.
    310. Cfr. Mt 13, 30.
    311. Cfr. Sal 121, 6.
    312. Cfr. Is 49, 15.
    313. Cfr. Rm 15, 6.
    314. Cfr. Lc 1, 78.
    315. Col 3, 14.
    316. Cfr. Col 3, 15.
    317. Cfr. Sal 94, 8; Eb 3, 8.
    318. Cfr. Ef 4, 17.
    319. Cfr. II Pt 2, 10; Rm 15, 1-3.
    320. Segue il salvacondotto già approvato nella XV sessione (v. sopra).
    321. Cfr. Is 11, 2.
    322. Gv 6, 52.
    323. Gv 6, 55.
    324. Gv 6, 57.
    325. Gv 6, 59.
    326. I Cor 4, 1.
    327. Cfr. At 16. 3; 21, 26-27.
    328. I Cor 11, 34.
    329. Cfr. Tt 3, 5.
    330. Concilio Lateranense IV, c. 62 (v. sopra).
    331. In realtà i concili di Lione e di Vienne non disposero nulla in proposito: si veda invece c. 2, V, 9. in Clem. (Fr 2. 1190).
    332. Cfr. Eb 7, 11, 19.
    333. Cfr. Eb 7, 27; 9, 12, 26, 28.
    334. Cfr. I Cor 11, 23.
    335. Cfr. Sal 109, 4; Eb 5, 6.
    336. Lc 11, 19; I Cor 11, 24.
    337. Cfr. Col 1, 3.
    338. Cfr. Mt 1, 11.
    339. Cfr. I Cor 10, 21.
    340. Eb 4, 16.
    341. Cfr. AGOSTINO, Contra Faustum, XX, 21 (CSEL 25, 562).
    342. Dall'orazione recitata durante la messa dopo la purificazione delle mani.
    343. Cfr. AMBROGIO, De sacram., IV, 6 (PL 16, 464).
    344. Cfr. Gv 19, 34.
    345. Cfr. Ap 17, 15.
    346. Cfr. Lam 4, 4.
    347. I Cor 11, 25.
    348. Cfr. Ger 48, 10.
    349. Cfr. Ef 5, 5.
    350. Cfr. Mt 21, 13; Is 56, 7.
    351. Concilio di Vienne, c. 5 (v. sopra).
    352. C. 1, II, 2, in VI (Fr 2, 996).
    353. Cfr. I Tm 6, 10.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:17 pm

    SESSIONE XXIII (15 luglio 1563)

    Dottrina vera e cattolica sul sacramento dell’ordine a condanna degli errori del nostro tempo.

    Capitolo I

    Il sacrificio e il sacerdozio per divino ordinamento sono talmente congiunti che l’uno e l’altro sono esistiti sotto ogni legge. E poiché nel nuovo Testamento la chiesa cattolica ha ricevuto dalla istituzione stessa del Signore il santo visibile sacrificio dell’eucarestia, bisogna anche confessare che vi è in essa anche il nuovo e visibile sacerdozio, in cui è stato trasferito l’antico (354).

    Che poi questo sia stato istituito dallo stesso Signore e salvatore nostro, e che agli apostoli e ai loro successori nel sacerdozio sia stato trasmesso il potere di consacrare, di offrire e di dispensare il suo corpo e il suo sangue; ed inoltre di rimettere o di non rimettere i peccati, lo mostra la sacra scrittura e lo ha sempre insegnato la tradizione della chiesa cattolica.

    Capitolo II

    Il ministero annesso ad un sacerdozio così santo è cosa divina, fu perciò conveniente che, per esercitarlo più degnamente e con maggiore venerazione, nell’ordinata articolazione della chiesa vi fossero più ordini di ministri e diversi fra loro, che servissero, per ufficio loro proprio, nel sacerdozio, e fossero così distribuiti, che quelli che fossero stati già insigniti della tonsura, attraverso gli ordini minori salissero ai maggiori. La sacra scrittura, infatti, nomina espressamente non solo i sacerdoti, ma anche i diaconi, ed insegna con parole solenni quello cui si deve sommamente badare nella loro ordinazione (355). E si sa che fin dall’inizio della chiesa erano in uso i nomi degli ordini seguenti e i ministeri propri a ciascuno di essi: suddiacono, accolito, esorcista, lettore, ostiario, quantunque non con pari grado. Il suddiaconato, inoltre, dai padri e dai sacri concili è considerato tra gli ordini maggiori; e leggiamo in essi, frequentissimamente , anche quanto riguarda gli ordini minori.

    Capitolo III

    Poiché dalla testimonianza della scrittura, dalla tradizione apostolica e dal consenso unanime dei padri appare chiaro che con la sacra ordinazione - che si compie con parole e segni esteriori - viene comunicata la grazia, nessuno deve dubitare che l’ordine è realmente e propriamente uno dei sette sacramenti della chiesa. Dice, infatti, l’apostolo: Io ti esorto che tu voglia rianimare la grazia di Dio, che è in te con l’imposizione delle mie mani. Non ci ha dato, infatti, Dio lo spirito del timore, ma della virtù, dell’amore e della sobrietà (356).

    Capitolo IV

    Poiché, poi, nel sacramento dell’ordine, come nel battesimo e nella cresima, viene impresso il carattere, che non può essere né cancellato, né tolto, giustamente il santo sinodo condanna l’opinione di quelli che asseriscono che i sacerdoti del nuovo Testamento hanno solo un potere temporaneo, e che quelli che una volta sono stati regolarmente ordinati, possono tornare di nuovo laici, se non esercitano il ministero della parola di Dio.

    Se qualcuno afferma che tutti i cristiani, senza distinzione, sono sacerdoti del nuovo Testamento, o che tutti godono fra di essi di uno stesso potere spirituale, allora costui non sembra far altro che sconvolgere la gerarchia ecclesiastica, che è come un esercito schierato a battaglia (357); proprio come se, diversamente da quanto insegna il beato Paolo (358), fossero tutti apostoli, tutti profeti, tutti evangelisti, tutti pastori, tutti dottori.

    Perciò il santo sinodo dichiara che - oltre agli altri gradi ecclesiastici - appartengono a questo ordine gerarchico specialmente i vescovi, successori degli apostoli, che sono posti (come afferma lo stesso apostolo) dallo Spirito santo a reggere la chiesa di Dio (359); sono superiori ai sacerdoti; possono conferire il sacramento della cresima, ordinare i ministri della chiesa e compiere le molte altre funzioni, di cui gli altri di ordine inferiore non hanno alcun potere.

    Insegna, inoltre, il santo concilio, che nella ordinazione dei vescovi, dei sacerdoti e degli altri ordini non si richieda così necessariamente il consenso, o la chiamata o l’autorità del popolo o di qualsiasi potestà o autorità secolare, da render nulla, senza di esse, l’ordinazione. Anzi, quelli che, chiamati e costituiti solo dal popolo o dal potere e dall’autorità secolare si appressano ad esercitare questi ministeri, e quelli che se li arrogano di propria temerità, sono tutti non ministri della chiesa, ma ladri e rapinatori, che non sono entrati dalla porta (360).

    Queste sono le cose che in generale è sembrato bene al santo sinodo insegnare ai fedeli cristiani sul sacramento dell’ordine. Ed ha stabilito di condannare quanto contrasta con questi insegnamenti con canoni determinati e propri come segue, affinché tutti, con l’aiuto di Dio, attenendosi alla regola della fede, in mezzo alle tenebre di tanti errori, più facilmente possano conoscere e tenere la verità cattolica.

    CANONI SUL SACRAMENTO DELL’ORDINE

    1. Se qualcuno dirà che nel nuovo Testamento non vi è un sacerdozio visibile ed esteriore, o che non vi è alcun potere di consacrare e di offrire il vero corpo e sangue del Signore, di rimettere o di ritenere i peccati, ma il solo ufficio e il nudo ministero di predicare il vangelo, o che quelli che non predicano non sono sacerdoti, sia anatema.

    2. Se qualcuno dirà che oltre al sacerdozio non vi sono nella chiesa cattolica altri ordini, maggiori e minori, attraverso i quali, come per gradi si tenda al sacerdozio, sia anatema.

    3. Se qualcuno dirà che l’ordine, cioè la sacra ordinazione, non è un sacramento in senso vero e proprio, istituito da Cristo signore, o che è un’invenzione umana fatta da uomini ignoranti di cose ecclesiastiche, o che è solo un rito per eleggere i ministri della parola di Dio e dei sacramenti, sia anatema.

    4. Se qualcuno dirà che con la sacra ordinazione non viene dato lo Spirito santo, e che quindi, inutilmente il vescovo dice: Ricevi lo Spirito santo, o che con essa non si imprime il carattere o che chi sia stato una volta sacerdote, possa di nuovo diventare laico, sia anatema.

    5. Se qualcuno dirà che la sacra unzione, che la chiesa usa fare nella santa ordinazione, non solo non è necessaria, ma che si deve disprezzare e che è dannosa, come tutte le altre cerimonie dell’ordine, sia anatema.

    6. Se qualcuno dice che nella chiesa cattolica non vi è una gerarchia istituita per disposizione divina, e formata di vescovi, sacerdoti e ministri, sia anatema.

    7. Se qualcuno dirà che i vescovi non sono superiori ai sacerdoti, o che non hanno il potere di confermare e di ordinare, o che quello che hanno è comune ad essi con i sacerdoti, o che gli ordini da loro conferiti senza il consenso o la chiamata del popolo o dell’autorità secolare, sono invalidi; o che quelli, che non sono stati né regolarmente ordinati né mandati dall’autorità ecclesiastica e canonica, ma vengono da altri, sono legittimi ministri della parola e dei sacramenti, sia anatema.

    8. Se qualcuno dirà che i vescovi, assunti per autorità del romano pontefice, non sono vescovi legittimi e veri, ma invenzione umana, sia anatema.

    Decreto di riforma.

    Lo stesso sacrosanto concilio Tridentino, proseguendo la materia della riforma, stabilisce e ordina che, al presente, si debbano stabilire le cose che seguono.

    Canone I

    Poiché con precetto divino (361) è stato comandato a tutti quelli cui è stata affidata la cura delle anime, di conoscere le proprie pecore, di offrire per esse il sacrificio, di pascerle con la predicazione della parola divina, con l’amministrazione dei sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona; di aver una cura paterna per i poveri e per gli altri bisognosi e di attendere a tutti gli altri doveri pastorali, - cose tutte che non possono essere fatte e compiute da quelli che non vigilano sul proprio gregge e non lo assistono, ma lo abbandonano come mercenari (362) - il sacrosanto sinodo li ammonisce e li esorta, perché, memori dei divini precetti e divenuti esempi del gregge (363), lo pascano e lo reggano nella saggezza e nella verità.

    Perché le disposizioni che santamente e utilmente già precedentemente sono state stabilite da Paolo III (364), di felice memoria, sulla residenza, non vengano interpretate secondo sensi del tutto alieni dall’intenzione del sacrosanto sinodo, - quasi che in forza di quel decreto si possa essere assenti per cinque mesi continui, - il sacrosanto concilio, riconfermandole, dichiara che tutti quelli che con qualsiasi ragione e con qualsiasi titolo sono messi a capo di chiese patriarcali, primaziali, metropolitane, cattedrali anche se fossero cardinali della santa chiesa romana, sono obbligati alla residenza personale nella loro chiesa o diocesi e ad attendere in esse all’ufficio loro affidato; e che non possono assentarsi, se non per i motivi e nei modi che seguono.

    Poiché, infatti, la carità cristiana, una urgente necessità, la dovuta obbedienza ed una evidente utilità della chiesa e dello stato esige e richiede talvolta che qualcuno si allontani, lo stesso sacrosanto concilio stabilisce che queste cause di legittima assenza debbano essere approvate per iscritto dal beatissimo romano pontefice, o dal metropolita, o, se questi fosse assente, dal vescovo suffraganeo residente più anziano, che dovrà, inoltre, approvare l’assenza del metropolita. A meno che l’assenza sia determinata da un incarico o da un ufficio di pubblica utilità congiunto con i vescovati, le cui cause, essendo notorie e qualche volta improvvise, non è neppure necessario comunicarle al metropolita. A questi, tuttavia, spetterà, insieme col concilio provinciale, giudicare delle licenze concesse da lui o da un suffraganeo e vigilare che nessuno abusi di quel diritto, e che chi manca sia punito con le pene canoniche.

    Si ricordino, intanto, quelli che si assentano, che si deve provvedere in tal modo alle loro pecore che, per quanto è possibile, esse non ricevano alcun danno dalla loro assenza.

    Inoltre, quelli che sono assenti solo per breve tempo, non si considerano assenti secondo le prescrizioni degli antichi canoni, perché dovrebbero tornare subito; il sacrosanto concilio però vuole che lo spazio dell’assenza, continuo o ad intervalli, al di fuori delle cause predette, ogni anno non superi in nessun modo i due, o, al massimo, i tre mesi; e che si faccia in modo che l’assenza abbia un motivo plausibile e non rechi danno al gregge. Che davvero sia così, lo si lascia alla coscienza di chi parte, che si spera sia religiosa e timorata, dato che Dio, la cui opera sono tenuti a compiere senza inganno (365), a loro rischio, vede i cuori (366).

    Esso, inoltre, li ammonisce e li esorta nel Signore a non volersi assentare in nessun modo dalla loro chiesa cattedrale durante il tempo dell’avvento del Signore, della quaresima, della natività, della resurrezione del Signore, nei giorni della pentecoste e del corpo di Cristo, nei quali le pecorelle devono soprattutto essere ristorate e godere nel Signore della presenza del pastore, a meno che i doveri episcopali li chiamino altrove nella loro diocesi.

    Se qualcuno (che ciò non avvenga mai!), contro quanto stabilisce questo decreto, si allontanasse, il sacrosanto sinodo stabilisce che, oltre alle altre pene imposte sotto Paolo III contro i non residenti e rinnovate, e oltre al peccato mortale, nel quale incorre, egli non abbia diritto di percepire i suoi frutti in proporzione del tempo dell’assenza; e che, anche senza altra dichiarazione, egli non possa con tranquilla coscienza, tenerli. È anzi tenuto, o in suo difetto il superiore ecclesiastico, ad erogare questi frutti alla fabbrica delle chiese o ai poveri del luogo. È anche proibita qualsiasi convenzione o composizione per frutti mal percepiti per cui i frutti predetti verrebbero in tutto o in parte lasciati all’interessato. Ciò, non ostante qualsiasi privilegio, concesso a qualsiasi collegio o fabbrica.

    Il sacrosanto sinodo dichiara e stabilisce le stesse, identiche cose - anche per quanto riguarda la colpa, la perdita dei frutti, le pene - per i curati inferiori e per qualsiasi altro che abbia un beneficio ecclesiastico con cura d’anime, con questa precauzione: che quando essi, dopo che il motivo è stato fatto presente e approvato dal vescovo, si allontanano, lascino un sostituto adatto, che lo stesso ordinario dovrà approvare e a cui dovrà essere assegnato il dovuto compenso. Essi, poi, non potranno ottenere il permesso di andarsene per un tempo superiore al bimestre, eccetto il caso di un motivo grave. Questo permesso sia rilasciato per iscritto e gratuitamente.

    Se citati a comparire, anche non personalmente, fossero contumaci, il sinodo lascia agli ordinari di costringerli con le censure ecclesiastiche, col sequestro e la sottrazione dei frutti, e con gli altri rimedi del diritto, fino alla privazione del beneficio. Questa esecuzione, poi, non potrà esser sospesa da nessun privilegio, licenza, parentela, esenzione, anche a causa di qualsiasi beneficio, patto, statuto, perfino confermato con giuramento o da qualsiasi autorità, da qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, - che si deve piuttosto dire corruttela - o appello o proibizione, anche alla curia romana o in forza della costituzione di Eugenio IV (367).

    Da ultimo, il santo sinodo comanda che nei concili provinciali e vescovili siano pubblicati sia il decreto approvato sotto Paolo III, che questo. Desidera, infatti, che le cose che sono essenziali al dovere pastorale e alla salvezza delle anime, vengano fatte risuonare spesso agli orecchi e alle menti di tutti, così che in avvenire, con l’aiuto di Dio, non siano abolite né per ingiuria del tempo, né per dimenticanza degli uomini, né per la desuetudine.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:18 pm

    Canone II

    Quelli che per qualunque ragione e con qualsiasi titolo sono messi a capo delle chiese cattedrali o superiori, anche se si trattasse di cardinali della santa chiesa romana, qualora non ricevessero la consacrazione entro tre mesi, siano tenuti alla restituzione dei frutti che hanno percepito. Se dopo ciò trascureranno di riceverla per altri tre mesi, siano privati ipso iure delle loro chiese. Quanto alla consacrazione, se verrà fatta fuori della curia romana, venga celebrata, possibilmente, nella chiesa, alla quale sono stati promossi o nella provincia.

    Canone III

    I vescovi conferiscano gli ordini personalmente. Se per malattia non potessero, mandino i loro sudditi già approvati ed esaminati ad altro vescovo perché li ordini.

    Canone IV

    Non siano ammessi alla prima tonsura quelli che non avessero ricevuto il sacramento della confermazione e una rudimentale istruzione sulla fede, che non sappiano leggere e scrivere e dei quali non si possa facilmente pensare che hanno scelto questo genere di vita non con l’astuta intenzione di poter fuggire il giudizio secolare, ma per prestare a Dio un fedele servizio.

    Canone V

    Chi dev’essere promosso agli ordini minori abbia un buon attestato del parroco o del maestro della scuola in cui viene educato.

    Quelli poi che aspirano agli ordini maggiori, un mese prima dell’ordinazione si rechino dal vescovo. Questi affiderà al parroco o ad altri, come meglio crederà, il compito di indagare diligentemente - dopo aver pubblicato, nella chiesa, i nomi e il desiderio di quelli che vogliono esser promossi - sulla nascita, l’età, i costumi e la vita degli stessi ordinandi, interrogando persone degne di fede, e di trasmettere al più presto le lettere testimoniali al vescovo stesso con l’indagine fatta.

    Canone VI

    Nessuno, ricevuta la prima tonsura o costituito negli ordini minori, potrà ricevere un beneficio prima dal quattordicesimo anno. Questi non dovrà neppure godere del privilegium fori, se non ha un beneficio ecclesiastico o se, per disposizione del vescovo non serva, in qualche chiesa, o non si trovi in un seminario di chierici, o, con licenza del vescovo, in qualche scuola od università, per prepararsi a ricevere gli ordini maggiori.

    Con i chierici ammogliati si osservi la costituzione di Bonifacio VIII Clerici, qui cum unicis (368), purché essi, destinati dal vescovo al servizio o al ministero di qualche chiesa, prestino davvero il loro servizio e ministero in quella chiesa e portino l’abito clericale e la tonsura.

    A nessuno potrà esser di aiuto, in ciò, qualsiasi privilegio o consuetudine, anche immemorabile.

    Canone VII

    Il santo sinodo, seguendo le prescrizioni degli antichi canoni, dispone che, quando il vescovo intende fare un’ordinazione, tutti quelli che vogliono entrare nel sacro ministero, il mercoledì prima dell’ordinazione, o quando sembrerà al vescovo, vengano chiamati in città. E il vescovo, con l’assistenza di sacerdoti e di altre persone prudenti, dotte nella legge divina e pratiche delle leggi ecclesiastiche, cerchi di conoscere ed esamini attentamente la famiglia, la persona, l’età, l’educazione, i costumi, la dottrina, la fede degli ordinandi.

    Canone VIII

    Il conferimento dei sacri ordini sia celebrato pubblicamente nei tempi stabiliti dal diritto nella chiesa cattedrale. Siano chiamati e siano presenti a ciò i canonici della chiesa. Se dovesse farsi in altro luogo, si scelga sempre, per quanto sarà possibile, la chiesa più degna, presente il clero del luogo.

    Ciascuno sia ordinato dal proprio vescovo. E se qualcuno chiedesse di essere promosso da altri, non gli sia in nessun modo concesso, - neppure col pretesto di qualche rescritto o privilegio generale o speciale, e nei tempi stabiliti, - se la sua onestà e la sua condotta non siano raccomandati da un attestato del suo ordinario. Se si agisse diversamente, l’ordinante sia sospeso per un anno dal conferimento degli ordini; chi è stato ordinato sia sospeso dall’esercizio degli ordini ricevuti, per tutto il tempo che sembrerà opportuno all’ordinario.

    Canone IX

    Un vescovo non potrà ordinare un suo familiare, che non sia suo suddito, se non avrà vissuto con lui per un triennio, e non gli conferisca immediatamente e realmente un beneficio, al di fuori di ogni inganno. Ciò, non ostante qualsiasi consuetudine contraria, anche immemorabile.

    Canone X

    In avvenire, non sia permesso agli abati né a chiunque altro esente, chiunque sia, che si trovi entro i confini di una diocesi, anche se si dica di nessuna diocesi o esente, conferire la tonsura o gli ordini minori a chiunque, che non sia regolarmente suo suddito; gli stessi abati ed altri esenti, o collegi o capitoli qualsiasi, anche di chiese cattedrali, non dovranno concedere lettere dimissorie a chierici secolari perché vengano ordinati da altri; l’ordinazione di tutti questi, invece - nella piena osservanza di tutte le prescrizioni contenute nei decreti di questo santo sinodo, - sia riservata ai vescovi nel territorio della cui diocesi essi si trovano. Non ostante qualsiasi privilegio, prescrizione, o consuetudine, anche immemorabile.

    Il sinodo dispone che anche la pena stabilita contro chi chiede le lettere dimissorie al capitolo cattedrale, durante la vacanza della sede - contro il decreto di questo santo sinodo, sotto Paolo III (369), - sia estesa a quelli che ottenessero le stesse lettere non dal capitolo, ma da chiunque altro che, sede vacante, succeda nella giurisdizione del vescovo, invece del capitolo.

    Chi conceda lettere dimissorie contro il tenore dello stesso decreto, sia sospeso ipso iure dal suo ufficio e beneficio per un anno.

    Canone XI

    Gli ordini minori siano conferiti a quelli che comprendono la lingua latina, osservando gli intervalli di tempo, a meno che al vescovo non sembri meglio fare diversamente. Cosi potranno essere più accuratamente istruiti sull’importanza di questo impegno. Si esercitino in ognuno di questi uffici, secondo le prescrizioni del vescovo, nella chiesa, cui saranno addetti, a meno che non siano assenti per motivi di studio; e così salgano, di grado in grado e con l’età cresca in essi il merito ed una maggiore dottrina.

    Confermeranno ciò soprattutto l’esempio dei buoni costumi, l’assiduo servizio nella chiesa, una maggiore riverenza verso i sacerdoti e gli ordini superiori, la comunione più frequente del corpo di Cristo.

    E poiché da qui si apre l’ingresso ai gradi più alti e ai misteri più sacri, nessuno sia promosso ad essi se non lascia sperare di esserne degno.

    Nessuno sia promosso ai sacri ordini, se non dopo un anno da quando ha ricevuto l’ultimo grado degli ordini minori, a meno che a giudizio del vescovo la necessità o l’utilità della chiesa non richieda diversamente.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:19 pm

    Canone XII

    D’ora innanzi nessuno sia promosso all’ordine del suddiaconato prima dei ventidue anni di età; al diaconato, prima dei ventitré; al sacerdozio, prima dei venticinque.

    I vescovi tengano presente, però, che non tutti quelli che hanno raggiunto questa età devono essere assunti a questi ordini, ma solo i degni e quelli, la cui onesta vita è testimonianza di maturità (370). Anche i religiosi non siano ordinati né in età minore né senza diligente esame da parte del vescovo. Si esclude assolutamente, in ciò, qualsiasi privilegio.

    Canone XIII

    Siano ordinati suddiaconi e diaconi quelli che hanno buona reputazione, che hanno dato buona prova già negli ordini minori, che sono istruiti nelle lettere e sono in possesso delle qualità necessarie per esercitare il loro ordine e che, con l’aiuto di Dio, possono sperare di praticare la continenza. Prestino servizio nelle chiese, cui saranno assegnati e sappiano che faranno cosa sommamente degna, se, almeno nelle domeniche e nei giorni più solenni, servendo all’altare, riceveranno la santa comunione. Non si permetta che quelli che sono promossi all’ordine sacro del suddiaconato, salgano al grado superiore, se non avranno passato almeno un anno in quell’ordine, a meno che al vescovo non sembri diversamente. Non vengano conferiti due ordini sacri nello stesso giorno, neppure ai religiosi, non ostante qualsiasi privilegio ed indulto concesso a chiunque.

    Canone XIV

    Quelli che si sono comportati piamente e fedelmente nei ministeri precedenti, siano assunti all’ordine del presbiterato. Abbiano buona testimonianza (371), e siano tali, che non solo abbiano servito almeno un anno intero nel diaconato - a meno che per una utilità e necessità della chiesa non sembri al vescovo di dover fare diversamente - ma che, previo diligente esame, siano anche giudicati capaci di insegnare al popolo quelle verità che a tutti è necessario sapere per la salvezza, e di amministrare i sacramenti; che, inoltre, brillino in tal modo per pietà e purezza di costumi, da potersi aspettare da essi un meraviglioso esempio di buone opere e moniti di vita.

    Il vescovo curi che essi celebrino la santa messa almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni; e, se hanno cura d’anime, tanto frequentemente, da soddisfare al loro dovere.

    A quelli che sono stati promossi con un salto, se essi non hanno esercitato il ministero, il vescovo potrà accordare la dispensa per una causa legittima.

    Canone XV

    Anche se i sacerdoti nella loro ordinazione ricevono il potere di assolvere dai peccati, tuttavia, questo santo concilio stabilisce che nessuno, neppure un religioso, possa ascoltare le confessioni dei secolari - anche sacerdoti - ed essere giudicato adatto a questo ministero, se o non ha un beneficio parrocchiale o non è ritenuto capace dal vescovo con un esame - se questi lo crederà necessario - o in altro modo, e non ottiene l’approvazione. Questa dev’essere data gratuitamente. Ciò non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche immemorabile.

    Canone XVI

    Poiché nessuno dev’essere ordinato, se a giudizio del suo vescovo non sia utile o necessario alle sue chiese, il santo sinodo, conformemente al sesto canone del concilio di Calcedonia (372), stabilisce che nessuno, in futuro, venga ordinato, se non è addetto alla chiesa o al luogo pio, per la cui necessità od utilità viene assunto, dove egli eserciti i suoi doveri, senza andare vagando da una sede all’altra. Se per caso egli abbandonasse il posto, senza avere il permesso del vescovo, gli si proibisca l’esercizio dei sacri ministeri. Inoltre, nessun chierico straniero sia ammesso da nessun vescovo a celebrare i divini misteri e ad amministrare i sacramenti, senza lettere commendatizie del proprio ordinario.

    Canone XVII

    Perché le funzioni dei santi ordini, dal diaconato all’ostiariato, lodevolmente accolte nella chiesa fin dai tempi degli apostoli, e in molti luoghi per lungo tempo interrotte, siano rimesse in uso secondo i sacri canoni, e non siano criticate dagli eretici come inutili, il santo sinodo, desiderando vivamente di rimettere in uso quell’antica usanza, stabilisce che, in futuro tali ministeri non siano esercitati se non da quelli che sono costituiti in questi ordini.

    Il concilio esorta, quindi, nel Signore, tutti e singoli i prelati e comanda loro di far in modo - per quanto è possibile - che nelle chiese cattedrali, collegiate e parrocchiali della loro diocesi, dove un popolo numeroso e i proventi della chiesa lo permettono, queste funzioni vengano ripristinate, assegnando a quelli che le esercitano uno stipendio sui redditi di qualche beneficio semplice o della fabbrica della chiesa, se vi fossero dei proventi, o dell’uno e dell’altra. Se poi questi chierici fossero negligenti, siano multati di una parte degli emolumenti o addirittura privati di essi, a giudizio dell’ordinario.

    Se, inoltre, non si trovassero dei chierici celibatari per esercitare i quattro ordini minori, potranno essere loro sostituiti anche degli sposati di onesta vita, adatti a questi uffici, purché non bigami e a condizione che in chiesa portino la tonsura e l’abito clericale.

    Canone XVIII

    Gli adolescenti, se non sono ben formati, sono inclini a seguire i piaceri del mondo (373) e se non sono orientati, fin dai teneri anni, alla pietà e alla religione prima che cattive abitudini si impadroniscano completamente dell’uomo, non sono capaci di perseverare completamente nella disciplina ecclesiastica, senza un aiuto grandissimo e singolarissimo di Dio onnipotente. Per questo il santo sinodo stabilisce che le singole chiese cattedrali, metropolitane, e le altre maggiori di queste, in proporzione delle loro facoltà e della grandezza della diocesi, siano obbligate a mantenere, educare religiosamente ed istruire nella disciplina ecclesiastica un certo numero di fanciulli della stessa città e diocesi, o, se non fossero abbastanza numerosi, della provincia, in un collegio scelto dal vescovo vicino alle stesse chiese o in altro luogo adatto.

    Siano ammessi in questo collegio quelli che hanno almeno dodici anni e sono nati da legittimo matrimonio, che abbiano imparato a leggere e a scrivere e la cui indole e volontà dia speranza che essi sono disposti ad essere sempre a servizio della chiesa. Il concilio intende che vengano scelti specialmente i figli dei poveri, senza escludere i figli dei ricchi, purché si mantengano da sé e mostrino inclinazione a servire con zelo Dio e la chiesa.

    Il vescovo dividerà questi fanciulli in tante classi quante a lui sembrerà, secondo il loro numero, la loro età, il progresso nella disciplina ecclesiastica. E quando gli sembrerà opportuno, ne destinerà una parte al servizio delle chiese, una parte ne lascerà nel collegio perché siano istruiti, sostituendo altri al posto di quelli che sono stati formati, di modo che questo collegio sia un perpetuo seminario di ministri di Dio.

    Perché, poi, possano essere istruiti più facilmente nella disciplina ecclesiastica, prenderanno subito la tonsura e indosseranno sempre la veste clericale; impareranno la grammatica, il canto, il computo ecclesiastico e le altre conoscenze utili; attenderanno con ogni attenzione allo studio della sacra scrittura, dei libri ecclesiastici, delle omelie dei santi, al modo di amministrare i sacramenti, - specie per ascoltare le confessioni, - e impareranno le regole dei riti e delle cerimonie.

    Il vescovo procuri che ogni giorno assistano al sacrificio della messa; che almeno ogni mese si confessino, e secondo il giudizio del confessore, ricevano il corpo del nostro signore Gesù Cristo e che nei giorni festivi servano in cattedrale e nelle altre chiese del luogo: cose tutte, insieme ad altre opportune e necessarie a questo riguardo, che i singoli vescovi stabiliranno col consiglio dei due canonici più anziani e di maggior criterio, che essi eleggeranno come lo Spirito santo suggerirà loro. Questo consilio si darà da fare con visite frequenti perché tali prescrizioni vengano osservate. Essi puniranno severamente i caratteri difficili e incorreggibili e quelli che propagano cattivi costumi. Se necessario, li cacceranno, toglieranno ogni impedimento e porranno ogni cura nel realizzare qualsiasi cosa che sembri possa essere adatta a conservare e far fiorire una istituzione così pia e così santa.

    Per costruire l’edificio del collegio, per dare un compenso ai professori e al personale, per mantenere la gioventù e per altre spese, oltre ai mezzi che in alcune chiese e luoghi sono destinati all’educazione e al mantenimento dei fanciulli, che il vescovo avrà cura di devolvere a favore di questo seminario -, saranno necessari dei redditi fissi. Per questo, gli stessi vescovi, col consiglio di due membri del capitolo, di cui uno eletto dal vescovo e l’altro dal capitolo e similmente di due membri del clero della città, la cui elezione spetti per uno al vescovo e per l’altro al clero, detrarranno una parte delle rendite della mensa vescovile, del capitolo, di qualsiasi dignità, personato, ufficio, prebenda, porzione, abbazia e priorato, di qualsiasi ordine, - anche regolare -, qualità o condizione essi fossero; ed inoltre degli ospedali che vengono dati in titolo o in amministrazione, secondo la costituzione del concilio di Vienne Quia contingit (374), di ogni beneficio, anche regolare, di qualsiasi diritto di patronato o esente o di nessuna diocesi o annesso ad altre chiese, monasteri, ospedali, o a qualsiasi altro luogo pio, anche esente. Detrarranno una parte anche dalle fabbriche delle chiese ed altri luoghi pii e da qualsiasi altro reddito e provento ecclesiastico, anche di altri collegi (in cui, tuttavia, non vi siano attualmente seminari di alunni e di maestri per promuovere il comune bene della chiesa: il concilio, infatti, ha voluto che questi fossero esenti, salvo per i redditi eccedenti al conveniente sostentamento degli stessi seminari), o di corporazioni o confraternite - che in alcuni luoghi sono dette scuole - di tutti i monasteri, ma non dei mendicanti; anche dalle decime in qualsiasi modo appartenenti ai laici, da cui sogliono essere pagati sussidi ecclesiastici, e ai soldati di qualsiasi milizia ed ordine (eccettuati soltanto i frati di S. Giovanni di Gerusalemme).

    Essi applicheranno e incorporeranno a questo collegio la parte così detratta, assieme ad alcuni benefici semplici, di qualsiasi qualità e dignità, o anche i prestimoni, o quelle che sono dette porzioni prestimoniali, anche prima che si rendano vacanti, naturalmente senza pregiudizio del culto divino e di quelli che le hanno.

    Ciò abbia luogo anche se i benefici sono riservati. Né queste unioni ed aggiunte potranno esser sospese o impedite in alcun modo per la rinuncia degli stessi benefici; ma sortiranno assolutamente il loro effetto, non ostante qualsiasi vacanza, - anche nella curia romana -, e qualsiasi costituzione.

    I possessori dei benefici, delle dignità, dei personati, e di tutti e singoli quegli enti che sono stati nominati poco fa, siano costretti dai vescovi a pagare questa porzione con le censure ecclesiastiche e con gli altri mezzi del diritto, non solo per sé, ma anche per le pensioni che dovessero per caso pagare ad altri da questi frutti, ritenendo, tuttavia, "pro rata" quanto essi dovranno pagare per queste pensioni. A questo scopo potranno servirsi, se lo crederanno, dell’aiuto del braccio secolare. Tutto ciò, - per quanto riguarda tutte e singole le prescrizioni suddette - non ostante qualsiasi privilegio, esenzione (anche se dovessero richiedere una deroga particolare), consuetudine, anche immemorabile, appello, citazione, che avesse forza di impedire l’esecuzione.

    Nel caso, poi, che, mandate ad effetto queste unioni, - o anche in altra maniera - il seminario in tutto o in parte venga a trovarsi provvisto, allora la porzione detratta ai singoli benefici, come descritto sopra, sarà condonata in tutto o in parte dal vescovo, come la cosa esigerà.

    Se in questa erezione e conservazione del seminario i prelati delle chiese cattedrali e delle altre chiese maggiori fossero negligenti e si rifiutassero di pagare la loro porzione, l’arcivescovo dovrà riprendere severamente il vescovo, il sinodo provinciale dovrà riprendere l’arcivescovo e quelli a lui superiori e costringerli a fare tutto ciò che è stato detto e farà in modo, con ogni diligenza, che quest’opera santa e pia, dovunque si possa, venga realizzata.

    Il vescovo, poi, si faccia fare ogni anno una relazione sui redditi di questo seminario, presenti due membri del capitolo ed altre due persone scelte dal clero della città. Inoltre, perché con minore spesa si possa provvedere all’istituzione di tali scuole, il santo sinodo stabilisce che i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari costringano e spingano in ogni modo - anche col togliere loro i frutti - quelli che hanno cattedre di insegnamento oppure l’ufficio di lettore o di insegnante, ad insegnare in queste scuole a quelli che devono essere istruiti: personalmente se sono capaci, altrimenti per mezzo di sostituti adatti, scelti da loro stessi e approvati dagli ordinari. Se a giudizio del vescovo questi non fossero degni, nominino un altro che sia degno, senza alcun diritto di appello. Se fossero negligenti nel far ciò, lo nomini lo stesso vescovo. Essi insegneranno quello che al vescovo sembrerà opportuno.

    Per l’avvenire, poi, gli uffici e dignità attinenti all’insegnamento non siano conferiti se non ai dottori o ai maestri, o ai licenziati in sacra scrittura o in diritto canonico o a persone idonee e disponibili ad adempiere questo ufficio personalmente. Ogni provvista fatta in modo diverso sia nulla ed invalida. Tutto ciò, non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche immemorabile.

    Se poi in qualche provincia le chiese fossero tanto povere, da non potersi erigere, in qualcuna, il collegio, il sinodo provinciale o il metropolita con i due suffraganei più anziani farà in modo che nella chiesa metropolitana o nella chiesa più comoda della provincia, con i frutti di due o più chiese - in ciascuna delle quali il collegio non potrebbe essere facilmente costituito - vengano eretti uno o più collegi, come giudicherà opportuno, dove i fanciulli di quelle chiese siano educati.

    Nelle chiese, invece, che hanno diocesi ampie, il vescovo potrà avere uno o più seminari, come gli sembrerà opportuno, che, però, dovranno dipendere in tutto e per tutto da quello eretto e costituito nella città.

    Per ultimo, se per le unioni, per la tassazione o assegnazione e incorporazione delle porzioni o per qualsiasi altro motivo, sorgesse qualche difficoltà, per cui la costituzione e la conservazione di questo seminario potrebbe esserne impedita o resa difficile, il vescovo e i deputati per questo problema o il sinodo provinciale, a seconda degli usi della regione, della qualità delle chiese e dei benefici, - limitando anche o aumentando quanto sopra abbiamo prescritto, se fosse necessario - potranno determinare e prendere ogni singolo provvedimento che sembrerà necessario ed opportuno al felice progresso di questo seminario.

    Decreto sul giorno della futura sessione e sulle materie che in essa saranno trattate.

    Lo stesso sacrosanto sinodo Tridentino indice la prossima futura sessione per il giorno sedici del mese di settembre. In essa si tratterà del sacramento del matrimonio e di altri argomenti, se vi saranno questioni relative alla dottrina della fede, che possano essere portate a conclusione. Si tratterà anche delle provviste dei vescovati, delle dignità e degli altri benefici ecclesiastici e dei diversi articoli della riforma.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:19 pm

    SESSIONE XXIV (11 novembre 1563)

    (Dottrina sul sacramento del matrimonio).

    Il vincolo del matrimonio fu dichiarato solennemente perpetuo e indissolubile dal primo padre del genere umano quando disse, sotto l’ispirazione dello Spirito santo: Questo, ora, è osso delle mie ossa e carne della mia carne. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla propria moglie: e saranno due in una sola carne (375).

    Che questo vincolo dovesse unire e congiungere due persone soltanto, Cristo Signore lo insegnò più apertamente, quando, riferendo quelle ultime parole come pronunciate da Dio, disse: Quindi, ormai non sono più due, ma una sola carne e immediatamente confermò la stabilità di quel vincolo, affermata da Adamo tanto tempo prima, con queste parole: L’uomo, quindi, non separi quello che Dio ha congiunto (376).

    Lo stesso Cristo, autore e perfezionatore dei santi sacramenti, con la sua passione ci ha meritato la grazia, che perfezionasse quell’amore naturale, ne confermasse l’indissolubile unità e santificasse gli sposi. Cosa che Paolo apostolo accenna, quando dice: Uomini, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la chiesa ed ha sacrificato se stesso per essa (377). E poco dopo soggiunge: Grande è questo sacramento. Io dico in Cristo e nella chiesa (378).

    Poiché, quindi, il matrimonio nella legge evangelica è superiore per la grazia di Cristo agli antichi matrimoni, giustamente i nostri santi padri, i concili e la tradizione della chiesa universale hanno sempre insegnato che si dovesse annumerare tra i sacramenti della nuova legge.

    Insanendo contro di essa, uomini empi di questo secolo non solo si sono formati un’opinione falsa di questo venerabile sacramento, ma secondo il proprio costume, col pretesto del vangelo hanno introdotto la libertà della carne e con la bocca e con gli scritti hanno affermato molte cose aliene dal senso della chiesa cattolica e dalla tradizione approvata dai tempi degli apostoli, non senza grande danno dei fedeli cristiani.

    Perciò il santo e universale sinodo, volendo opporsi alla loro temerità, ha determinato di sterminare le eresie e gli errori più notevoli di questi scismatici e di stabilire contro gli stessi eretici ed i loro errori i seguenti anatematismi.



    CANONI SUL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

    1. Se qualcuno dirà che il matrimonio non è in senso vero e proprio uno dei sette sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo, ma che è stato inventato dagli uomini nella chiesa, e non conferisce la grazia, sia anatema.

    2. Chi dirà che è lecito ai cristiani avere nello stesso tempo più mogli e che ciò non è proibito da alcuna legge divina, sia anatema.

    3. Se qualcuno dirà che solo i gradi di consanguineità e di affinità enumerati nel Levitico (379) possono impedire di contrarre il matrimonio e possono sciogliere uno già contratto e che la chiesa non può dispensare da qualcuno di essi o costituirne in numero maggiore che lo impediscano e lo sciolgano, sia anatema.

    4. Se qualcuno dirà che la chiesa non poteva stabilire degli impedimenti dirimenti il matrimonio, o che stabilendoli ha errato, sia anatema.

    5. Se qualcuno dirà che per motivo di eresia o a causa di una convivenza molesta o per l’assenza esagerata dal coniuge si possa sciogliere il vincolo matrimoniale, sia anatema.

    6. Se qualcuno dirà che il matrimonio rato e non consumato non venga sciolto con la professione solenne di uno dei coniugi, sia anatema.

    7. Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando ha insegnato ed insegna che secondo la dottrina evangelica ed apostolica (380) non si può sciogliere il vincolo del matrimonio per l’adulterio di uno dei coniugi, e che l’uno e l’altro (perfino l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio) non possono, mentre vive l’altro coniuge, contrarre un altro matrimonio, e che, quindi, commette adulterio colui che, lasciata l’adultera, ne sposi un’altra, e colei che, scacciato l’adultero, si sposi con un altro, sia anatema.

    8. Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando, per vari motivi, stabilisce che si può fare la separazione dalla coabitazione tra i coniugi, a tempo determinato o indeterminato, sia anatema.

    9. Se qualcuno dirà che i chierici costituiti negli ordini sacri o i religiosi che hanno emesso solennemente il voto di castità, possono contrarre matrimonio, e che questo, una volta contratto, sia valido, non ostante la legge ecclesiastica o il voto, e che sostenere l’opposto non sia altro che condannare il matrimonio; e che tutti quelli che sentono di non avere il dono della castità (anche sé ne hanno fatto il voto) possono contrarre matrimonio, sia anatema. Dio, infatti, non nega questo dono a chi lo prega (381) con retta intenzione e non permette che noi siamo tentati al di sopra di quello che possiamo (382).

    10. Se qualcuno dirà che lo stato coniugale è da preferirsi alla verginità o al celibato e che non è cosa migliore e più beata rimanere nella verginità e nel celibato, che unirsi in matrimonio (383), sia anatema.

    11. Se qualcuno dirà che la proibizione della solennità delle nozze in alcuni periodi dell’anno è una superstizione tirannica, che ha avuto origine dalla superstizione dei pagani o condannerà le benedizioni e le altre cerimonie, di cui la chiesa fa uso in esse, sia anatema.

    12. Se qualcuno dirà che le cause matrimoniali non sono di competenza dei giudici ecclesiastici, sia anatema.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:19 pm

    CANONI SULLA RIFORMA DEL MATRIMONIO

    Capitolo I

    Quantunque non si debba dubitare che i matrimoni clandestini, celebrati con il libero consenso dei contraenti, siano rati e veri matrimoni, almeno fino a che la chiesa non li abbia dichiarati invalidi, - e che, quindi, a buon diritto debbano condannarsi (come il santo sinodo in realtà condanna) quelli che negano che essi siano veri e rati e chi falsamente afferma che i matrimoni contratti dai figli senza il consenso dei genitori siano nulli, e che questi possano invalidarli o annullarli, - tuttavia la santa chiesa di Dio li ha sempre, per giustissimi motivi, detestati e proibiti.

    Il santo sinodo però deve riconoscere che tali proibizioni per la disobbedienza degli uomini non servono a nulla e considera i gravi peccati che nascono da questi matrimoni, specie di coloro che rimangono in una condizione di dannazione, quando, lasciata la prima moglie, con cui hanno contratto segretamente matrimonio, lo contraggono pubblicamente con un’altra, e vivono con essa in perpetuo adulterio. Ora la chiesa, che non giudica delle intenzioni occulte, non può ovviare a questo male, se non provvede con qualche rimedio più efficace.

    Seguendo, perciò, le orme del sacro concilio Lateranense (384), celebrato sotto Innocenzo III, comanda che in avvenire, prima che si contragga il matrimonio, per tre volte, in tre giorni festivi consecutivi il parroco dei contraenti dichiari pubblicamente in chiesa, durante la santa messa, tra chi debba contrarre il matrimonio. Fatte queste pubblicazioni, se non si oppone alcun legittimo impedimento, si proceda alla celebrazione del matrimonio dinanzi alla chiesa, dove il parroco, interrogati l’uomo e la donna, ed inteso il loro mutuo consenso, dica: Io vi congiungo in matrimonio nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, o si serva di altra formula, secondo il rito consueto in ciascuna provincia.

    Se poi in qualche caso vi fosse il fondato sospetto che, facendo tante pubblicazioni, il matrimonio potrebbe essere maliziosamente impedito, allora si faccia solo una pubblicazione, o il matrimonio venga celebrato almeno alla presenza del parroco e di due o tre testimoni. Quindi, prima della consumazione, si facciano le pubblicazioni in chiesa, affinché se vi fosse qualche impedimento sia facilmente scoperto, a meno che l’ordinario stesso non giudichi opportuno che le predette pubblicazioni vengano omesse, cosa che il santo sinodo rimette alla sua prudenza e al suo criterio.

    Quelli che tenteranno di contrarre matrimonio in maniera diversa da quella prescritta, e cioè presente il parroco o altro sacerdote, con la licenza dello stesso parroco o dell’ordinario e con due o tre testimoni, il santo sinodo li rende assolutamente incapaci a contrarre il matrimonio in tal modo e dichiara nulli e vani questi contratti; e col presente decreto li rende vani e li annulla.

    Comanda, inoltre, che siano gravemente puniti a giudizio dell’ordinario, il parroco e qualsiasi altro sacerdote, che con minor numero di testimoni assistesse a tale contratto; e i testimoni che lo facessero senza il parroco o altro sacerdote; ed anche gli stessi contraenti.

    Il santo sinodo, inoltre, raccomanda che gli sposi, prima della benedizione sacerdotale - da riceversi in chiesa - non abitino insieme nella stessa casa. Stabilisce anche che la benedizione debba essere impartita dal proprio parroco e che nessun altro, fuorché lo stesso parroco o l’ordinano, possa concedere la licenza di dare questa benedizione ad altro sacerdote, non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, - che deve dirsi piuttosto corruzione - o privilegio.

    Se un parroco od altro sacerdote, sia regolare che secolare, - anche se crede di poterlo fare per un privilegio o per una consuetudine immemorabile -, osasse unire in matrimonio o benedire sposi di altra parrocchia, senza il permesso del loro parroco, per disposizione stessa del diritto rimanga sospeso fino a quando non sia assolto dall’ordinario del parroco che avrebbe dovuto assistere al matrimonio, o che avrebbe dovuto impartire la benedizione.

    Il parroco abbia un registro, in cui scriva accuratamente i nomi dei coniugi e dei testimoni, il giorno e il luogo in cui fu contratto il matrimonio, e lo conservi diligentemente presso di sé.

    Da ultimo, il santo sinodo esorta i coniugi che prima di contrarre il matrimonio, o almeno tre giorni prima della sua consumazione, confessino diligentemente i propri peccati, e si accostino piamente al santissimo sacramento dell’eucarestia.

    Se vi fossero poi delle province che, oltre a queste, abbiano anche altre lodevoli consuetudini e cerimonie, il santo sinodo desidera vivamente che vengano conservate.

    E perché precetti così salutari non debbano rimanere ignoti a qualcuno, comanda a tutti gli ordinari che, non appena lo possano, facciano in modo che questo decreto venga reso noto e spiegato al popolo in ogni chiesa parrocchiale delle loro diocesi. Nel primo anno, ciò dovrà farsi spessissimo; poi, quando lo crederanno necessario.

    Stabilisce, inoltre, che questo decreto cominci ad andare in vigore, in ogni parrocchia, a trenta giorni dalla prima pubblicazione nella stessa parrocchia.

    Capitolo II

    L’esperienza insegna che molte volte, per la moltitudine delle proibizioni, si contraggono ignorantemente matrimoni in casi proibiti. Allora, o si continua nel matrimonio non senza grande peccato o esso si scioglie non senza grave scandalo.

    Il concilio, quindi, volendo provvedere a questo inconveniente, a cominciare dall’impedimento della parentela spirituale, stabilisce che solo uno, uomo o donna secondo le prescrizioni dei sacri cànoni, o al massimo un uomo e una donna possano tenere il battezzato al battesimo. Tra essi, il battezzato stesso e il padre e la madre di lui, come pure tra il battezzante e il battezzato e il padre e la madre del battezzato soltanto, si determini la parentela spirituale.

    Il parroco, prima di recarsi a conferire il battesimo, si informi diligentemente da quelli cui spetta, quale o quali persone essi hanno scelto per ricevere il battezzato dal sacro fonte, ed ammetta a tale ufficio soltanto quella o quelle; trascriva i loro nomi nel registro, e li informi della parentela che hanno contratto, perché non possano essere scusati da alcuna ignoranza.

    Se poi anche altri oltre quelli designati, toccassero il battezzato, questi non contrarranno in nessun modo parentela spirituale. Le costituzioni in contrario non avranno alcun valore. Se poi per colpa o negligenza del parroco si facesse diversamente, sia punito a giudizio dell’ordinario.

    Anche la parentela che nasce dalla confermazione non deve estendersi oltre chi conferma e chi viene confermato, suo padre e sua madre, e chi tocca il bambino. Tutti gli impedimenti di questa parentela spirituale che riguardano altre persone siano assolutamente aboliti.

    Capitolo III

    Il santo concilio toglie del tutto l’impedimento di giustizia di pubblica onestà, quando gli sponsali per qualsiasi motivo non fossero validi. Ma quando sono validi, non oltrepassi il primo grado, poiché negli altri (gradi) questa proibizione non può più essere osservata senza danno.

    Capitolo IV

    Questo santo sinodo, inoltre, indotto da questi ed altri gravissimi motivi, restringe solo ai parenti in primo e secondo grado l’impedimento che deriva dall’affinità contratta con la fornicazione e che scioglie il matrimonio contratto in seguito. E stabilisce che negli altri gradi questa affinità non scioglie il matrimonio contratto in seguito.

    Capitolo V

    Chi consapevolmente credesse di poter contrarre matrimonio nei gradi proibiti, sia separato e non abbia alcuna speranza di ottenere la dispensa. Ciò si osservi in modo particolare con chi osasse non solo contrarre il matrimonio, ma consumarlo. Se poi l’avesse fatto per ignoranza, per aver trascurato le solennità prescritte nel contrarre il matrimonio, sia soggetto alle stesse pene: non è degno, infatti, di trovar facilmente benevolenza presso la chiesa, chi ha trascurato i suoi salutari ammonimenti. Ma se, pur essendosi attenuti alle forme, in seguito si venisse a conoscere qualche impedimento, di cui egli, probabilmente, non ha avuto conoscenza, in questo caso più facilmente - e gratuitamente - gli si potrà concedere la dispensa.

    Per i matrimoni da contrarre non si concedano assolutamente dispense, o raramente; ciò, inoltre, non senza motivo e gratuitamente. Nel secondo grado non si dispensi mai, se non tra grandi principi e per un pubblico motivo.

    Capitolo VI

    Il santo concilio stabilisce che tra il rapitore e la persona rapita non possa aver luogo alcun matrimonio, per tutto il tempo che essa rimane in potere del rapitore. Se la persona rapita, separata dal rapitore e posta in luogo sicuro e libero, acconsentisse ad averlo per marito, il rapitore la prenda pure in moglie, ma il rapitore stesso e tutti quelli che gli hanno dato il loro consiglio e prestato il loro aiuto e il loro favore siano ipso iure scomunicati, infami per sempre e incapaci di qualsiasi dignità. Se poi fossero chierici, decadano dalla propria condizione. Il rapitore, inoltre, sia che la sposi, sia che non la sposi, sia obbligato a dare una dote alla persona rapita, proporzionata alla sua condizione, secondo la decisione del giudice.

    Capitolo VII

    Vi sono molti che vagano qua e là e non hanno fissa dimora. Poiché sono di indole cattiva, abbandonata la prima moglie, ne prendono un’altra, o addirittura più, in diversi luoghi, mentre essa vive ancora. Il santo sinodo intende rimediare a questa piaga e ammonisce paternamente tutti quelli, cui spetta, di non esser troppo facili ad ammettere al matrimonio questo genere di individui vaganti. Ed esorta anche le autorità secolari, perché li reprimano severamente.

    Ai parroci poi comanda di non assistere ai loro matrimoni, senza aver assunto prima diligenti informazioni, e se, dopo aver riferito la cosa all’ordinario, non hanno prima ottenuto la licenza di fare ciò.

    Capitolo VIII

    È grave peccato, certamente, che uomini non sposati abbiano concubine. Ma che anche uomini ammogliati vivano in questo stato di dannazione ed osino, qualche volta, mantenerle e tenerle in casa con le mogli, ciò è gravissimo, ed è atteggiamento di particolare disprezzo contro questo grande sacramento.

    Perciò il santo sinodo, volendo provvedere con opportuni rimedi ad un male così grande, stabilisce che questi concubinari, sia liberi che ammogliati, di qualsiasi stato, dignità e condizione essi siano, se, ammoniti di ciò dall’ordinario - anche d’ufficio - per tre volte, non rimandano le concubine e non cessano la vita in comune con esse, debbano esser colpiti dalla scomunica e che non possano esser assolti fino a quando non obbediranno realmente all’ammonizione fatta.

    Se poi, incuranti delle censure, rimanessero nel concubinato per un anno, l’ordinario proceda severamente contro di essi, secondo la qualità del delitto.

    Quanto a quelle donne, - siano esse maritate o nubili - che vivono pubblicamente con gli adulteri o concubinari, se esse, ammonite tre volte, non obbediranno, siano gravemente punite dagli ordinari dei luoghi, d’ufficio, anche senza che qualcuno lo richieda, a seconda della colpa, e siano cacciate dalla città o dalla diocesi, se questo sembrerà opportuno agli stessi ordinari, chiamando in aiuto, se necessario, il braccio secolare. Le altre pene stabilite contro gli adulteri e i concubinari rimarranno in vigore.

    Capitolo IX

    Gli affetti terreni e le passioni, spessissimo accecano tanto gli occhi della mente dei signori temporali e delle autorità, da costringere con minacce e pene uomini e donne della loro giurisdizione - specie se ricchi e se hanno la speranza di un grande eredità - a contrarre il matrimonio contro loro volontà con quelli che gli stessi signori e magistrati impongono loro.

    E poiché è sommamente empio che sia violata la libertà del matrimonio e che le ingiustizie nascano proprio da coloro, da cui si dovrebbe attendere l’esatta osservanza delle leggi, il santo sinodo comanda a tutti - di qualsiasi grado, dignità e condizione - sotto pena di scomunica ipso facto, di non voler impedire in nessun modo, direttamente o indirettamente, ai loro sudditi o a qualsiasi altro, di contrarre liberamente matrimonio.

    Capitolo X

    Dall’avvento del Signore nostro Gesù Cristo fino al giorno dell’epifania, e dal mercoledì delle ceneri all’ottava di Pasqua compresa, il santo sinodo dispone che tutti osservino le antiche proibizioni delle nozze solenni. Negli altri tempi, permette che esse possano celebrarsi solennemente; ma i vescovi faranno in modo che esse siano celebrate con quella moderazione e dignità che il rito comporta: il matrimonio, infatti, è cosa santa e dev’essere trattato santamente.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:21 pm

    Decreto di riforma.

    Lo stesso santo sinodo, proseguendo la materia della riforma, dispone che nella presente sessione si debba stabilire quanto segue.

    Canone I

    Se in ogni grado della chiesa bisogna far in modo con provvida consapevolezza che nella casa del Signore niente sia disordinato, né fuori posto, molto maggiormente bisogna far in modo di non errare nella elezione di colui che viene costituito al di sopra di ogni grado: infatti lo stato e l’ordine di tutta la famiglia del Signore sarà diverso, se quello che si richiede nelle membra verrà a mancare nel capo (385).

    Quindi, benché altrove (386) il santo sinodo abbia dato alcune utili prescrizioni riguardo a coloro che devono esser promossi alle chiese cattedrali e superiori, crede, tuttavia, che questo ufficio sia tale, che se si considerasse in proporzione della sua grandezza, non sembrerebbe mai abbastanza tutelato. Il concilio quindi stabilisce che non appena una chiesa si rende vacante, sia in pubblico che in privato si rivolgano a Dio suppliche e preghiere. Preghiere e suppliche siano indette anche dal capitolo per tutta la città e per tutta la diocesi, perché il clero e il popolo possano impetrare da Dio un buon pastore.

    Inoltre, pur non innovando nulla, su questo argomento per il presente stato dei tempi, esorta ed ammonisce tutti quelli che hanno in qualsiasi modo per concessione della santa sede, o anche diversamente, titolo a intervenire nella promozione dei futuri prelati perché si ricordino, prima di ogni altra cosa, che essi non possono fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza dei popoli, che procurare che vengano promossi pastori buoni e adatti a governare la chiesa. Li ammonisce anche che essi, divenendo partecipi dei peccati degli altri, peccano gravemente, se non procureranno diligentemente che vengano scelti a governare quelli che essi stimano più degni e più utili alla chiesa, mossi non da preghiere, da umano affetto o dai suggerimenti di chi briga, ma dai loro meriti: quelli nati da legittimo matrimonio e che presentano una vita, un’età, una dottrina e tutte le altre qualità, che sono richiesti dai sacri canoni e dai decreti di questo sinodo Tridentino.

    E poiché nell’assumere le informazioni - serie e utili - degli uomini onesti e dotti su tutte queste qualità, non si può avere un modo dappertutto uniforme, data la varietà delle nazioni, dei popoli e dei costumi, il santo concilio comanda che nel sinodo provinciale - che il metropolita deve tenere - sia prescritto per ogni luogo e provincia un proprio schema per l’esame, l’inchiesta o l’istruttoria che si deve fare, da approvarsi dal santissimo pontefice romano, secondo l’utilità dei luoghi. In tal modo quando, poi, questo esame o inchiesta sulla persona da promuoversi è stata completata, sia redatta in atto pubblico e con l’insieme delle testimonianze e la professione di fede da essa fatta, sia senz’altro trasmessa al più presto al pontefice romano, affinché lo stesso sommo pontefice, dopo aver preso completa visione di tutta la pratica e delle persone, possa più utilmente provvedere per mezzo loro alle chiese - se saranno trovati adatti - per l’utilità del gregge del Signore.

    Inoltre, tutte le ricerche, le informazioni, le testimonianze, le prove di qualsiasi natura, che si sono potute raccogliere sulle qualità di colui che dev’essere promosso e sullo stato della chiesa, da qualsiasi persona, anche nella curia romana, vengano esaminate diligentemente da un cardinale che poi ne farà la relazione in concistoro e da tre altri cardinali; la relazione sia confermata dalla firma del cardinale relatore e dei tre cardinali. In essa ciascuno dei quattro cardinali affermi separatamente, che, usata accurata diligenza, ha trovato le persone, che devono essere promosse, fornite delle qualità richieste dal diritto e da questo santo sinodo, e di avere la persuasione - a rischio dell’eterna salute - che essi sono adatti ad esser messi a capo delle chiese. Fatta poi la relazione in un primo concistoro, perché frattanto con più matura riflessione si possa giungere ad una più profonda conoscenza della inchiesta, si differisca il giudizio ad altro concistoro, a meno che al pontefice non sembri opportuno fare diversamente.

    Stabilisce, inoltre, lo stesso concilio che tutte e singole le prescrizioni che sono state emanate, altre volte, nello stesso sinodo, per quanto riguarda la vita, l’età, la dottrina e le altre qualità dei vescovi che dovranno essere eletti, debbano osservarsi anche nella creazione dei cardinali della santa chiesa romana, anche se fossero solo diaconi, e che il pontefice romano, per quanto possibile, eleggerà da tutte le nazioni della cristianità, a seconda che li troverà adatti.

    Da ultimo lo stesso sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che travagliano la chiesa, non può non ricordare che niente è più necessario alla chiesa di Dio che il pontefice romano mostri quella sollecitudine che in forza del suo ufficio deve a tutta la chiesa specialmente nello scegliere solo dei cardinali eccellenti e nel mettere a capo delle singole chiese pastori ottimi e adatti. Ciò con tanta maggior ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo, gli chiederà conto del sangue di quelle sue pecore che dovessero perire a causa del cattivo governo di pastori negligenti e immemori del loro ufficio.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:21 pm

    Canone II

    Se i concili provinciali in qualche posto sono stati trascurati, vengano ripresi per regolare i costumi, correggere le colpe, comporre le controversie, e per le altre cose permesse dai sacri canoni.

    Perciò i metropoliti stessi, - o se essi ne fossero legittimamente impediti, il coepiscopo più anziano, - almeno entro un anno dalla fine del presente concilio, e, in seguito, almeno ogni tre anni, non trascuri di riunire il sinodo della sua provincia, dopo l’ottava della Pasqua del nostro signore Gesù Cristo, o in altro tempo più comodo, secondo l’usanza della provincia. Ad esso devono assolutamente partecipare tutti i vescovi e gli altri che per diritto o per consuetudine sono obbligati ad intervenirvi, eccettuati quelli, soltanto, che dovrebbero attraversare il mare con immediato pericolo.

    Al di fuori di tale occasione i vescovi comprovinciali non siano più costretti, contro la loro volontà, a recarsi alla chiesa metropolitana col pretesto di qualsiasi consuetudine. Similmente i vescovi che non dipendono da nessun arcivescovo, una volta per sempre scelgano un metropolita vicino, al cui sinodo provinciale siano tenuti a partecipare con gli altri, ed osservino e facciano osservare quelle decisioni che vi fossero state prese. In tutte le altre cose, la loro esenzione e i loro privilegi siano sani e salvi.

    Si celebrino anche, ogni anno, i sinodi diocesani; ad essi dovranno recarsi anche tutti quegli esenti che, se non fossero esenti avrebbero l’obbligo di parteciparvi, e che non sono soggetti ai capitoli generali. Quelli che hanno la cura di chiese parrocchiali o di altre, anche annesse, chiunque essi siano, dovranno partecipare al sinodo.

    I metropoliti, i vescovi e gli altri menzionati sopra che in questi problemi fossero negligenti, incorreranno nelle pene sancite dai sacri canoni.

    Canone III

    I patriarchi, i primati, i metropoliti e i vescovi non manchino di visitare personalmente la propria diocesi; se ne fossero legittimamente impediti, lo facciano per mezzo del loro vicario generale o di un visitatore. Se ogni anno non potessero visitarla completamente per la sua estensione, ne visitino almeno la maggior parte, in modo tale, però, che nel giro di due anni, o personalmente o per mezzo dei loro visitatori, terminino di visitarla.

    I metropoliti, visitata completamente la propria diocesi, non visitino le chiese cattedrali e le diocesi dei loro comprovinciali, se non per un motivo, conosciuto e approvato nel concilio provinciale. Gli arcidiaconi, i decani e gli altri inferiori, in quelle chiese in cui fino ad ora hanno usato fare legittimamente la visita, in avvenire potranno farla solo personalmente, con un notaio e col consenso del vescovo.

    Anche i visitatori che devono essere scelti dal capitolo, - dove il capitolo ha diritto di visita, - devono prima essere approvati dal vescovo. Ma non perciò il vescovo, o, se egli fosse impedito, il suo visitatore, non avranno il diritto di visitare le stesse chiese per proprio conto. Anzi gli arcidiaconi e gli altri inferiori saranno tenuti a presentargli entro un mese la relazione della visita fatta e a mostrargli le deposizioni dei testi e tutti gli atti. Ciò, non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, qualsiasi esenzione e privilegio.

    Scopo principale di tutte queste visite sia quello di portare la sana e retta dottrina, dopo aver fugato le eresie; di custodire i buoni costumi e correggere quelli corrotti; di entusiasmare il popolo, con esortazioni e ammonizioni, per la religione, la pace, la rettitudine; e di stabilire tutte quelle altre cose che, secondo il luogo, il tempo, l’occasione, e la prudenza dei visitatori, possono portare un frutto ai fedeli.

    E perché queste cose possano avere più facilmente esito felice, tutti quelli che abbiamo nominato ed a cui spetta la visita, sono esortati a tenere verso tutti paterna carità e zelo cristiano. Contenti, quindi, di un numero modesto di cavalli e di servitori, cerchino di portare a termine la visita al più presto possibile e tuttavia con la dovuta diligenza. E intanto facciano in modo di non esser di peso e di aggravio a nessuno con spese inutili; e non prendano nulla, né essi, né qualcuno dei loro, come diritto di visita, anche per visite a legati per usi pii, - fuorché quello che è loro dovuto di diritto per lasciti pii, o per qualsiasi altro titolo, né denaro, né regali di qualsiasi genere, anche se in qualsiasi modo vengano offerti, non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile.

    Si eccettuano, tuttavia, le spese per il vitto, che dovranno essere sostenute per loro e per quelli che li accompagnano in modo frugale e moderato, e solo per le necessità del tempo e non oltre. Si lascia tuttavia alla libera scelta di quelli che sono visitati, di dare una somma di denaro secondo quanto erano soliti pagare, ovvero di offrire il sostentamento accennato, salvo il diritto delle antiche convenzioni stabilite con i monasteri ed altri luoghi pii e con le chiese non parrocchiali, che deve rimanere intatto.

    In quei luoghi e province dove vi è la consuetudine che i visitatori non ricevano né il mantenimento, né denaro, né alcun’altra cosa, ma che si faccia tutto gratuitamente, vi si osservi questa consuetudine.

    Che se per caso qualcuno (Dio non voglia!) in tutti i casi suddetti osasse prendere qualche cosa di più, questi, oltre alla restituzione del doppio entro un mese, sia colpito anche con altre pene, secondo la costituzione del concilio generale di Lione Exigit (387) e con altre ancora nel sinodo provinciale, a giudizio del sinodo, senza speranza di perdono.

    I patroni non pretendano in nessun modo di ingerirsi nell’amministrazione dei sacramenti; né si immischino nella visita agli ornamenti della chiesa o nei proventi dei beni immobili o delle fabbriche, se non nella misura che compete ad essi in forza della costituzione e della fondazione; attendano, invece, a queste cose i vescovi stessi. E procurino che i redditi delle fabbriche siano spesi in usi necessari ed utili per la chiesa, come ad essi sembrerà più conveniente.

    Canone IV

    Il santo sinodo, desiderando che l’ufficio della predicazione, che è il principale dovere dei vescovi, venga esercitato quanto più frequentemente è possibile per la salvezza dei fedeli, adattando meglio alle necessità dei tempi presenti i canoni emanati un tempo su questo argomento sotto Paolo III (388), di felice memoria, comanda che essi espongano le sacre scritture e la legge divina: nella propria chiesa, personalmente, o, se ne fossero legittimamente impediti, mediante persone assunte per la predicazione, nelle altre chiese di città o della diocesi per mezzo dei parroci, o, qualora questi ne fossero impediti, per mezzo di altri da designarsi dal vescovo, a spese di quelli che sono tenuti o sono soliti accollarsi queste spese, almeno tutte le domeniche e nelle feste solenni, durante la quaresima e l’avvento del Signore, ogni giorno, o almeno tre volte la settimana, se lo credono opportuno, ed inoltre ogni volta che ciò possa esser stimato utile.

    Il vescovo ammonisca diligentemente il popolo che ognuno è tenuto a recarsi nella propria parrocchia, se può farlo facilmente, per ascoltare la parola di Dio. Nessun secolare o regolare osi predicare - anche nelle chiese del suo ordine - qualora il vescovo fosse contrario. Gli stessi vescovi avranno anche cura che almeno nei giorni di domenica e negli altri festivi in ogni parrocchia i bambini siano diligentemente istruiti da chi ne ha il dovere, nei rudimenti della fede e in ciò che riguarda l’obbedienza a Dio e ai genitori. Se sarà necessario li costringeranno anche con le censure ecclesiastiche. Tutto ciò, non ostante i privilegi e le consuetudini. Nelle altre cose, conservino la loro forza le disposizioni che sono state emanate sotto lo stesso Paolo III sul dovere della predicazione.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:22 pm

    Canone V

    Le cause criminali più gravi contro i vescovi, - anche di eresia (Dio non voglia!) -, che importino la deposizione o la privazione, siano trattate e portate a conclusione solo dal romano pontefice. Se poi si trattasse di una causa che necessariamente debba essere istruita fuori della cuna romana, non sia affidata a nessuno, fuorché a metropoliti o a vescovi, scelti dal papa.

    Questo sia un mandato speciale e sia firmato dallo stesso sommo pontefice. Esso non conferisca mai un potere più ampio di quello di ricostruire il solo fatto, e di istruire il processo, che manderà subito al romano pontefice, riservando a lui solo la sentenza definitiva. Quanto al resto, si osservino da tutti le norme stabilite un tempo sotto Giulio III (389), di felice memoria, su questo argomento, e la costituzione emanata sotto Innocenzo III, nel concilio generale: Qualiter et quando (390), che il santo sinodo rinnova. Le cause criminali minori dei vescovi, invece, siano trattate e concluse solo nel concilio provinciale o da persone scelte dal concilio provinciale.

    Canone VI

    In tutti i casi di irregolarità e di sospensione che hanno origine da delitto occulto - eccettuato quello che deriva da omicidio volontario e gli altri portati dinanzi al foro contenzioso - sia permesso ai vescovi dispensare; così pure sia lecito ad essi assolvere gratuitamente nel foro della coscienza qualsiasi colpevole, a loro soggetto, personalmente, nella propria diocesi, o per mezzo del vicario, da designarsi a ciò con speciale mandato, in qualsiasi caso occulto, anche in quelli riservati alla santa sede, imposta, naturalmente, una salutare penitenza. La stessa facoltà sia loro concessa, ma non ai loro vicari, nel delitto di eresia, nello stesso foro della coscienza.

    Canone VII

    Perché il popolo fedele riceva i sacramenti con maggiore riverenza e devozione dell’anima, il santo sinodo comanda a tutti i vescovi che non solo quando questi sacramenti devono essere amministrati da loro, personalmente, spieghino, prima, la loro efficacia e la loro utilità, secondo l’intelligenza di chi li riceve, ma facciano in modo che la stessa cosa si faccia piamente e prudentemente dai singoli parroci, anche in lingua volgare, se necessario e se si può fare senza incomodo.

    Ciò venga fatto secondo la forma che prescriverà il sinodo nella catechesi dei singoli sacramenti, che i vescovi avranno cura di far tradurre in lingua volgare e di far esporre al popolo da tutti i parroci. Durante la santa messa, inoltre, o nella celebrazione delle sacre funzioni, spieghino in volgare nelle singole feste o solennità, la parola di Dio e le esortazioni alla salvezza e si sforzino di inciderla nel cuore di tutti (lasciate da parte le questioni inutili), e di istruirli nella legge del Signore.

    Canone VIII

    L’apostolo ammonisce che quelli che mancano pubblicamente, devono essere pubblicamente corretti (391). Perciò, quando qualcuno commette un delitto pubblicamente e alla presenza di molti, per cui non si può dubitare che altri siano stati offesi e scossi dallo scandalo, bisogna imporre pubblicamente a costui una penitenza proporzionata, secondo la gravità della colpa, sicché con la testimonianza della sua punizione riporti sulla retta via quelli che con il suo esempio aveva spinto ad agire perversamente. Il vescovo, tuttavia, potrà commutare questo genere di penitenza pubblica in altro, occulto, quando questo gli sembrasse più adatto.

    In tutte le chiese cattedrali, inoltre, - dove ciò si può fare senza difficoltà - sia istituito dal vescovo un penitenziere unendo a tale funzione una prebenda di prossima vacanza. Questi sia maestro, dottore, licenziato in teologia o in diritto canonico, abbia quarant’anni; e ad ogni modo, sia il più idoneo che si possa trovare, considerata la qualità del luogo. Quando egli ascolterà, in chiesa, le confessioni, sia considerato presente al coro.

    Canone IX

    Le norme che un tempo sono state emanate sulla diligenza che i vescovi devono usare nella visita dei benefici, anche esenti, sotto Paolo III, di felice memoria (392), e, recentemente, sotto il beatissimo signore nostro Pio IV (393), in questo stesso concilio, siano osservate anche per quanto riguarda le chiese secolari, che si dicono non essere in nessuna diocesi. Esse, quindi, saranno visitate dal vescovo, la cui chiesa cattedrale è la più vicina (se ciò risulta), altrimenti da colui, che una volta per sempre sia stato eletto nel concilio provinciale dal prelato di quel luogo, come delegato della sede apostolica. Non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche immemorabile.


    Canone X

    Perché i vescovi possano mantenere più facilmente nella sottomissione e nell’obbedienza il popolo che essi governano, in tutto ciò che riguarda la visita e la correzione dei costumi dei loro sudditi, abbiano il diritto e il potere - anche come delegati della sede apostolica - di comandare, regolare, punire ed eseguire, conforme alle norme dei sacri canoni, quelle cose che, secondo la loro prudenza, sembreranno loro necessarie all’emendazione e all’utilità dei loro sudditi.

    In quei problemi, inoltre, che riguardano la visita o la correzione dei costumi (394), né l’esenzione, né proibizione alcuna, né appello o querela, anche se interposta presso la sede apostolica, potranno impedire o sospendere in alcun modo l’esecuzione di quanto è stato da loro comandato, stabilito, giudicato.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:25 pm

    Canone XI

    Poiché si deve costatare che i privilegi e le esenzioni, che per vari motivi vengono concessi a molti, producono oggi una certa confusione nella giurisdizione dei vescovi, e danno agli esenti occasione di una vita rilassata, il santo sinodo dispone che, se qualche volta si crederà opportuno per motivi giusti, gravi, e in qualche modo necessari, insignire qualcuno dei titoli d’onore del protonotariato, dell’accolitato, di conte palatino, di cappellano del re, e di altri titoli simili, sia nella curia romana che fuori di essa; e così pure oblati o come addetti a qualche monastero o col nome di inservienti delle milizie o dei monasteri, degli ospedali, dei collegi, o con qualsiasi altro titolo, si deve ritenere che con questi privilegi in nulla si detrae agli ordinari. Sicché quelli cui sono stati già concessi o verranno concessi in futuro tali privilegi, saranno pienamente soggetti in ogni cosa agli stessi ordinari, come delegati delle sede apostolica, e per quanto riguarda i cappellani regi, secondo la costituzione di Innocenzo III Cum capella (395). Saranno eccettuati coloro che attualmente servono nei luoghi predetti o prestano servizio nelle stesse milizie e risiedono nei loro recinti e case, e vivono sotto la loro obbedienza, e anche quelli che legittimamente e secondo la regola delle stesse milizie abbiano fatto la professione che, però, deve constare all’ordinario.

    Tutto ciò, non ostante qualsiasi privilegio, anche dell’ordine di S. Giovanni di Gerusalemme e di altre milizie.

    Quanto ai privilegi che sogliono competere a quelli che risiedono nella curia romana in forza della costituzione di Eugenio (396) o della loro appartenenza alla casa di cardinali, essi non riguardano quelli che hanno dei benefici ecclesiastici; a motivo di questi benefici costoro restino soggetti alla giurisdizione degli ordinari. Non ostante qualsiasi proibizione.

    Canone XII

    Poiché le dignità, nelle chiese, specie cattedrali, sono state istituite per conservare ed accrescere la disciplina ecclesiastica e perché quelli che le hanno si distinguessero nella pietà, fossero di esempio agli altri e aiutassero i vescovi con l’adempimento del loro dovere, giustamente quelli che sono chiamati a ricoprirle, devono essere tali da rispondere al loro ufficio.

    Nessuno, quindi, in avvenire, venga promosso a qualsiasi dignità, cui sia annessa la cura delle anime, se non ha raggiunto almeno il venticinquesimo anno di età, e, vissuto già nell’ordine clericale, non sia ragguardevole per la dottrina - necessaria per eseguire il proprio ufficio - e per la integrità dei costumi, secondo la costituzione di Alessandro III, promulgata nel concilio Lateranense: Cum in cunctis (397).

    Anche gli arcidiaconi, che sono detti occhi dei vescovi, siano, in tutte le chiese, dove è possibile, maestri in teologia, dottori e licenziati in diritto canonico.

    Alle altre dignità o personati, cui non è annessa la cura delle anime, siano chiamati quei chierici che, idonei sotto ogni altro aspetto, non abbiano meno di ventidue anni.

    Quelli, inoltre, che sono provvisti di qualsiasi beneficio che comporti la cura delle anime, sono tenuti, almeno entro i due mesi dalla presa di possesso, a fare nelle mani del vescovo, o, se questi ne fosse impedito, dinanzi al suo vicario generale o ad un suo officiale, la pubblica professione della loro retta fede. Promettano anche e giurino di rimanere nell’obbedienza della chiesa romana.

    Quelli, invece, che sono stati provvisti di canonicati e dignità in chiese cattedrali, sono tenuti a far ciò non solo dinanzi al vescovo o ad un suo rappresentante, ma anche in capitolo.

    Nessuno, inoltre, d’ora innanzi, sia ricevuto ad una dignità, ad un canonicato, ad una porzione, se non sia già costituito in quell’ordine sacro che è richiesto da tale dignità, prebenda o porzione, o sia in tale età, che entro il tempo stabilito dal diritto e da questo santo sinodo (398), possa ricevere l’ordine stesso.

    In tutte le chiese cattedrali, poi, tutti i canonicati e porzioni abbiano annesso l’ordine del presbiterato, del diaconato o del suddiaconato. Col consiglio del capitolo, poi, il vescovo designi e stabilisca, come gli sembrerà meglio, a quale ufficio ciascun ordine debba essere annesso; e lo faccia in tal modo, che almeno la metà siano presbiteri, gli altri diaconi o suddiaconi. Dove vi fosse la consuetudine più lodevole che la maggior parte o tutti siano presbiteri, sia osservata senz’altro.

    Questo santo sinodo esorta anche a far sì, che in quelle province dove si può facilmente realizzare, tutte le dignità e almeno metà dei canonicati, nelle chiese cattedrali e nelle collegiate insigni, siano conferiti solo a maestri o dottori, o anche ai licenziati in teologia o diritto canonico.

    A quelli, inoltre, che nelle stesse cattedrali o collegiate hanno dignità, canonicati, prebende o porzioni non sia lecito essere assenti ogni anno per più di tre mesi, in forza di qualsiasi statuto, o consuetudine, salve le costituzioni di quelle chiese che richiedono un tempo più lungo nel servizio. In caso contrario ciascuno il primo anno sia privato della metà dei frutti che ha percepito in ragione della prebenda e della residenza. Se poi mostrerà la stessa negligenza, sia privato di tutti i frutti che in quell’anno ha percepito. Crescendo la loro contumacia, si proceda contro di essi conforme alle prescrizioni dei sacri canoni.

    Per quanto riguarda le distribuzioni, le ricevano solo quelli che sono stati presenti alle ore stabilite. Gli altri, senza possibilità di intesa e di remissione, ne siano privati, secondo il decreto di Bonifacio VIII: Consuetudinem (399), che il santo sinodo intende ripristinare. Tutto ciò, non ostante qualsiasi statuto o consuetudine.

    Tutti poi siano obbligati a compiere i divini uffici da loro stessi, e non per mezzo di altri, ad assistere e a servire il vescovo quando celebra e compie altri uffici pontificali; e così pure a lodare con riverenza, chiaramente e con devozione in coro, istituito per salmeggiare il nome di Dio con inni e canti.

    Indossino sempre, inoltre, un vestito decente, sia nella chiesa che fuori. Si astengano da cacce illecite, da uccellagioni, da danze; si tengano lontani dalle osterie e dai giuochi e mostrino quella integrità di costumi, per cui a ragione possano esser chiamati il senato della chiesa.

    Quanto alle altre cose necessarie, che riguardano la dovuta disciplina nei divini uffici, il giusto modo di cantare e di salmodiare, il modo prescritto di andare e rimanere in coro, ed inoltre tutto ciò che riguarda i ministri della chiesa e altre cose simili, penserà il sinodo provinciale a prescrivere a ciascuno la propria forma, a seconda dell’utilità di ciascuna provincia e secondo i suoi usi. Nel frattempo il vescovo con non meno di due canonici, di cui uno scelto da lui, l’altro dal capitolo, potrà provvedere in quelle cose, che sembreranno necessarie.

    Canone XIII

    Poiché molte chiese cattedrali hanno redditi tanto tenui e sono così piccole, da non essere assolutamente adeguate alla dignità vescovile, né alla necessità delle chiese, il concilio provinciale, dopo aver chiamato quelli cui la cosa interessa, esamini e consideri diligentemente quali siano quelle che, per la loro piccolezza e inconsistenza sia necessario unire alle diocesi vicine o far in modo che aumentino i loro proventi. Redatto su ciò un documento, lo si mandi al sommo pontefice romano; basandosi su di esso, egli, secondo la sua prudenza e secondo quanto gli sembrerà doversi fare, unirà le più piccole fra di loro o ne aumenterà i frutti con qualche aggiunta.

    Intanto, fino a che queste pratiche non abbiano il loro effetto, il sommo pontefice romano potrà provvedere a quei vescovi che hanno bisogno di sovvenzioni per la povertà della loro diocesi con qualche beneficio, purché non abbia cura d’anime, e non si tratti di dignità, di canonicati, di prebende, di monasteri, in cui sia viva l’osservanza della regola, o che siano soggetti ai capitoli generali, e a determinati visitatori.

    Anche nelle chiese parrocchiali, i cui frutti siano ugualmente tanto scarsi da non potersi soddisfare agli oneri che hanno, il vescovo farà in modo che - se quanto abbiamo detto non si potrà ottenere con l’unione dei benefici (non tuttavia dei regolari), - con l’assegnazione delle primizie e delle decime, con i contributi delle parrocchie e con le raccolte di denaro, o in altro modo, che a lui sembri più adatto, si ricavi tanto che possa esser sufficiente alle necessità del rettore e della parrocchia.

    In ogni unione, poi, sia quelle sopra accennate, sia quelle che si dovessero fare per altri motivi, le chiese parrocchiali non si uniscano mai con un monastero, con una abbazia, con la dignità, o prebenda di una chiesa cattedrale, o collegiata, con altri benefici semplici, con ospedali, con milizie. E quelle che fossero unite, siano riesaminate dagli ordinari, secondo il decreto un tempo emanato nello stesso sinodo, sotto Paolo III, di felice memoria (400). Decreto che si osserverà ugualmente anche per le unioni fatte da quel tempo in poi. Ciò, nonostante qualsiasi termine usato che deve ritenersi come qui sufficientemente espresso.

    Oltre a ciò, in avvenire, tutte quelle chiese cattedrali, il cui reddito non supera la somma di mille ducati e le chiese parrocchiali, il cui reddito, secondo il loro vero valore annuo, non supera i cento, non siano aggravate da alcuna pensione o riserva di frutti.

    Anche in quelle città e luoghi, dove le chiese parrocchiali non hanno confini ben definiti, e i loro rettori non hanno un popolo da reggere, ma amministrano solo indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il santo sinodo comanda ai vescovi che, per potere ottenere con una maggiore certezza la salute delle anime loro affidate, diviso il popolo in parrocchie vere e proprie, assegnino a ciascuna un proprio parroco permanente, che possa conoscerle, e da cui soltanto ricevano lecitamente i sacramenti, o provvedano in altro modo migliore, secondo le esigenze del luogo. E cerchino di fare al più presto la stessa cosa nelle altre città e luoghi dove non vi sono affatto chiese parrocchiali. Ciò, non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche immemorabili.

    Canone XIV

    In molte chiese, sia cattedrali che collegiate e parrocchiali, in forza delle loro costituzioni o per una riprovevole consuetudine, è corrente che nella elezione, presentazione, nomina, istituzione, conferma, conferimento, o altra provvista o ammissione al possesso di una chiesa cattedrale o beneficio, di canonicati e di prebende, o ad una parte dei proventi, o alle distribuzioni quotidiane, si frappongano certe condizioni o deduzioni dai frutti, certi pagamenti, promesse e compensi illeciti, o anche quelli che in alcune chiese sono detti "lucri di turno".

    Il santo sinodo detesta queste cose e comanda ai vescovi che proibiscano quello che, in queste faccende, non viene convertito in uso pio, quegli ingressi che destano sospetto di simonia, o presentano il carattere di volgare avarizia. Prendano conoscenza, inoltre, diligentemente, delle loro costituzioni e consuetudini su questi argomenti, e con eccezione soltanto di quelle che essi approvano come lodevoli, respingano ed aboliscano tutte le altre, come indegne e scandalose.

    Il santo sinodo stabilisce che quelli che in qualsiasi modo agissero contro le prescrizioni di questo decreto, siano soggetti alle pene emanate contro i simoniaci, a quelle dei sacri canoni ed alle varie costituzioni dei sommi pontefici, che rinnova. Tutto questo, non ostante qualsiasi statuto, costituzione e consuetudine, anche immemorabile, anche se fossero state confermate dall’autorità apostolica. Il vescovo, come delegato della sede apostolica, potrà indagare sulla loro reticenza, falsità e difetto di intenzione.

    Canone XV

    In quelle chiese cattedrali e collegiate insigni, dove le prebende sono molte, e, quindi, poco consistenti pur con le distribuzioni quotidiane, così da non esser sufficienti per la decorosa condizione dei canonici, considerata la qualità del luogo e delle persone, i vescovi, col consenso del capitolo, potranno unire ad esse alcuni benefici semplici (mai dei regolari), o, se in questo modo non si potesse provvedere, ne sopprimano qualcuna, col consenso dei patroni - se sono di diritto di patronato dei laici, - applicandone i frutti e i proventi alle distribuzioni quotidiane delle altre prebende e le riducano di numero, facendo in modo, però, che ne rimangano tante, da poter esser sufficienti comodamente alla celebrazione del culto divino e alla dignità della chiesa. Ciò non ostante qualsiasi costituzione, privilegio, riserva, generale o speciale. Né le predette unioni o soppressioni potranno esser annullate o impedite da qualsiasi provvista, anche in forza di una rinunzia o da qualsiasi altra deroga o sospensione.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:25 pm

    Canone XVI

    Durante la sede vacante il capitolo - se ha l’ufficio di percepire i frutti - stabilisca uno o più economi, fidati e diligenti, che si occupino delle cose ecclesiastiche e dei proventi, e rendano ragione, a suo tempo, a colui cui spetta. Così pure sia tenuto ad eleggere un officiale o vicario entro gli otto giorni dalla morte del vescovo e a confermarlo, se già vi fosse; sia dottore o almeno licenziato in diritto canonico, o, in ogni caso e per quanto è possibile, adatto. Se si facesse diversamente, questa designazione sia devoluta al metropolita. Se poi la chiesa fosse proprio quella metropolitana, o se fosse esente, e il capitolo (come è stato accennato) fosse negligente, allora il più anziano dei vescovi suffraganei, se si tratta della chiesa metropolitana, e il più vicino, se si tratta di una chiesa esente, hanno il potere di costituire un economo e un vicano adatti.

    Il vescovo promosso a quella chiesa vacante, poi, tra le altre cose che gli spettano, esiga che gli si renda ragione dallo stesso economo, dal vicario e da qualsiasi altro officiale ed amministratore, costituito dal capitolo o da altri in suo luogo durante la sede vacante, anche se fossero membri dello stesso capitolo, ragione dei loro uffici, della giurisdizione, dell’amministrazione e di qualsiasi altro loro incarico. E potrà anche punire quelli che nel loro ufficio o amministrazione avessero mancato, anche se questi officiali, reso già il loro rendiconto, avessero ottenuto dal capitolo o da quelli che da esso fossero stati deputati, l’assoluzione o la liberazione. Il capitolo sarà anche tenuto a render conto allo stesso vescovo degli scritti che appartengono alla chiesa, se ne fossero giunti al capitolo.

    Canone XVII

    La disciplina ecclesiastica resta sconvolta, quando uno dei chierici occupa più uffici. Perciò sapientemente fu disposto dai sacri canoni che nessuno dovesse essere incardinato in due chiese (401). Ma molti, mossi da un riprovevole desiderio di guadagno, ingannando se stessi (non Dio!) non si vergognano di eludere con varie arti quelle prescrizioni che saggiamente sono state emanate e di tenere più benefici insieme.

    Per questo il santo sinodo, desiderando tornare alla dovuta disciplina nel governo delle chiese, con il presente decreto - che dovrà essere osservato da qualsiasi persona, di qualsiasi titolo, anche se fosse insignita dell’onore del cardinalato, - stabilisce che in futuro possa essere conferito a ciascuno un solo beneficio ecclesiastico. Se questo non fosse sufficiente all’onesto sostentamento di colui cui viene assegnato, si potrà conferirgliene un altro semplice, purché l’uno e l’altro non esigano la residenza personale.

    Queste norme dovranno riguardare non solo le chiese cattedrali, ma anche tutti gli altri benefici, sia secolari che regolari, anche se fossero dati solo in commenda, di qualsiasi titolo e qualità essi siano.

    Quelli poi che presentemente hanno più chiese parrocchiali, o ne hanno una cattedrale e l’altra parrocchiale, nonostante qualsiasi dispensa e qualsiasi unione a vita, siano senz’altro costretti a lasciare, entro lo spazio di sei mesi, le altre chiese parrocchiali, tenendosi soltanto la chiesa parrocchiale, o quella cattedrale. In caso diverso, tanto le chiese parrocchiali, quanto tutti gli altri benefici, che hanno ipso iure dovranno considerarsi vacanti, e, come vacanti, siano conferiti liberamente ad altri idonei; e quelli che prima avevano tali benefici, dopo quel tempo non potranno goderne i frutti con tranquillità di coscienza. Desidera, tuttavia, il santo sinodo, che si provveda alle necessita di quelli che rinunziano, in modo adatto, come sembrerà meglio al sommo pontefice.

    Canone XVIII

    Giova assai alla salute delle anime essere governate da parroci degni e adatti. E perché ciò possa esser fatto più diligentemente e più rettamente il santo sinodo stabilisce, che quando per morte o per rinunzia una chiesa parrocchiale si rende vacante - anche se la cura spetta alla chiesa o al vescovo ed è amministrata da una o più persone; anche nelle chiese dette patrimoniali o recettive, in cui il vescovo è solito dare la cura delle anime ad uno o più (persone tutte che sono tenute a sostenere l’esame di cui sotto) - anche se la stessa chiesa parrocchiale fosse riservata, sia in modo generale che speciale, anche in forza di qualche indulto o privilegio in favore di cardinali della santa chiesa romana, di abati, o di capitoli, il vescovo, non appena ha avuta notizia della vacanza, debba nominare, se necessario, un vicario adatto, con l’assegnazione di un’adeguata parte di frutti, a suo giudizio, il quale sostenga gli oneri della stessa chiesa, fino a che non sia stato nominato il rettore.

    Inoltre, il vescovo e chi ha diritto di patronato, entro dieci giorni od altro tempo da determinarsi dal vescovo, nomini dinanzi agli esaminatori alcuni chierici adatti a reggere la chiesa. Sia permesso, tuttavia, anche ad altri, se conoscessero qualche altro idoneo a questo ufficio, di fare i loro nomi, perché si possa fare poi una diligente ricerca sull’età, sui costumi, e sulla capacità di ciascuno. Se poi al vescovo o al sinodo provinciale sembrasse meglio, - conforme all’uso della regione, - i candidati all’esame siano convocati con pubblico editto. Passato il tempo stabilito, tutti quelli che sono stati iscritti, siano esaminati dal vescovo o, se questi fosse impedito, dal vicano generale e dagli altri esaminatori - che non devono essere meno di tre. Se i voti di questi fossero pari o singolarmente diversi, il vescovo, o il vicario potrà aggiungere il suo voto a colui, cui sembrerà più opportuno darlo.

    Gli esaminatori vengano presentati ogni anno nel sinodo diocesano dal vescovo o dal suo vicario almeno in numero di sei e siano di gradimento del sinodo e tali da ottenere la sua approvazione. Quando si rende vacante una chiesa, il vescovo ne scelga tre, che assieme a lui facciano l’esame; verificandosi un’altra vacanza, scelga gli stessi o altri tre fra i sei, quelli, cioè, che crederà meglio. Questi esaminatori siano maestri, dottori o licenziati in teologia o in diritto canonico; o anche altri chierici - o regolari -, anche dei mendicanti o secolari, a ciò particolarmente adatti. Giurino tutti sui santi vangeli di Dio, che essi, messa da parte qualsiasi umana considerazione, eseguiranno fedelmente il loro ufficio e si guardino bene dall’accettare, né prima né dopo, in occasione di questo esame, qualsiasi cosa. In caso contrario sia essi che gli altri che danno, incorrano nel reato di simonia, da cui non potranno essere assolti se non con la rinunzia ai benefici che in qualsiasi maniera, anche prima, avevano; e siano resi inabili per l’avvenire anche ad altri. Di queste cose, inoltre, siano obbligati a rendere conto non solo dinanzi a Dio, ma, se fosse il caso, anche nel sinodo provinciale, da cui, se si venisse a riscontrare che hanno in qualche modo agito contro il loro dovere, potranno essere puniti gravemente, a suo arbitrio.

    Fatto, quindi, l’esame, siano pubblicati i nomi di quelli giudicati idonei, per età, costumi, dottrina, prudenza e per quelle altre qualità che li rendono capaci di governare la chiesa vacante; tra questi il vescovo scelga quello che giudicherà più adatto degli altri. E a lui - non ad altri - sia fatto il conferimento della chiesa da quegli cui spetta conferirla. Se poi questa fosse di diritto di patronato ecclesiastico e quindi la nomina appartenesse al vescovo, e non ad altri, colui che il patrono giudicherà migliore tra i candidati approvati dagli esaminatori, dovrà presentarsi al vescovo per essere da lui nominato.

    Quando poi la nomina dovesse farsi da altri che non sia il vescovo, allora il solo vescovo scelga tra i degni il più degno, e il patrono lo presenti a colui, cui spetta la nomina. Se si trattasse di diritto di patronato di laici, quegli che sarà presentato dal patrono dovrà essere esaminato dagli stessi deputati di cui sopra, e non sarà ammesso, se non dopo che sarà stato trovato idoneo.

    In tutti i casi sopraddetti, però, non si provveda alla chiesa per mezzo di nessun altro, se non attraverso uno dei predetti esaminati e approvati dagli esaminatori, secondo la norma data. Nessuna devoluzione, o appello - anche se interposto alla sede apostolica, ai suoi legati, vicelegati, nunzi, vescovi, metropoliti, primati o patriarchi - potrà impedire o sospendere l’esecuzione della relazione di questi esaminatori.

    In caso diverso, il vicano che il vescovo avesse già assegnato temporaneamente, di propria iniziativa, alla chiesa vacante o che dovesse assegnare in seguito, non sia rimosso dalla cura e dal governo di quella chiesa, fino a che lui o altri, che fosse stato approvato o scelto, come già detto, non sia stato provvisto. Tutte le provviste o nomine fatte in maniera diversa da quanto prescrive la forma riferita sopra, devono essere considerate illegittime.

    Non impediranno questo decreto le esenzioni, gli indulti, i privilegi, le prevenzioni, le nuove provisioni, gli indulti concessi a qualsiasi università, anche dietro versamento di una certa somma e qualsivoglia altro impedimento.

    Se, tuttavia, i redditi di questa parrocchia fossero così tenui da non comportare il peso di tutto questo esame; o non vi sia alcuno che cerchi di sottoporsi a questo esame; o si temesse di suscitare facilmente risse e tumulti di una certa gravità, per le note fazioni o divisioni che vi sono in alcuni luoghi, l’ordinario - se in coscienza e col consiglio dei deputati crederà opportuno agire in tal modo, - omesso questo procedimento, potrà provvedere con un altro esame privato, osservando tuttavia le prescrizioni già esposte. Se poi il sinodo provinciale crederà di dover aggiungere od omettere qualche cosa circa la forma dell’esame, potrà farlo.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:25 pm

    Canone XIX

    Il santo sinodo stabilisce che i mandati di provvista, e quelle grazie che si chiamano ‘aspettative’ non si debbano concedere più a nessuno, neppure ai collegi, alle università ai senati, e ad altre singole persone, neppure a titolo di indulto, o dietro versamento di una certa somma, o con qualsiasi altro pretesto; e che a nessuno sia permesso far uso di quelle già concesse. Non si concedano a nessuno, inoltre, né le riserve mentali, né qualsiasi altra grazia che riguardi benefici che si renderanno vacanti, né indulti che riguardino chiese di altri o monasteri, neppure ai cardinali della santa chiesa romana. Le grazie e gli indulti che fossero stati concessi finora, siano considerati abrogati.

    Canone XX

    Tutte le cause che in qualsiasi modo appartengono al foro ecclesiastico - anche se riguardano i benefici - in prima istanza si svolgano solo dinanzi agli ordinari locali e siano assolutamente condotte a termine almeno entro un biennio dalla data dell’inizio della lite. Dopo questo tempo sia lecito alle parti, o ad una di esse, adire i giudici superiori, naturalmente competenti. Questi assumano la causa nello stato in cui si trova e cerchino di condurla a termine al più presto. Prima non siano affidate o avocate ad altri; né vengano accolti da nessun superiore gli appelli interposti; la loro assegnazione o inibizione non sia fatta, se non dopo la sentenza definitiva o avente valore definitivo, il cui onere non possa essere riparato con l’appello contro la sentenza definitiva.

    Si eccettuano, tuttavia, quelle cause che, secondo le prescrizioni canoniche, devono essere trattate presso la sede apostolica, o quelle che per un motivo urgente e ragionevole il sommo pontefice romano credesse di dovere affidare o avocare alla Segnatura con uno speciale rescritto da firmarsi di propria mano da sua santità.

    Le cause matrimoniali e criminali, inoltre, non siano lasciate al giudizio del decano, dell’arcidiacono o di altri inferiori, anche se sono in visita, ma solo all’esame e alla giurisdizione del vescovo, anche se tra il vescovo e il decano o l’arcidiacono o altri inferiori vi sia in pendenza qualche lite, in qualsiasi istanza, sulla trattazione di queste cause. E se una parte può davvero provare dinanzi a lui la sua povertà, non sia costretta a condurre avanti la causa fuori della provincia, né in seconda, né in terza istanza nella stessa causa matrimoniale, a meno che l’altra parte non sia disposta a provvedere gli alimenti e a sostenere le spese della lite.

    I legati, inoltre, anche a latere, i nunzi, i governatori ecclesiastici, o altri, qualunque facoltà essi abbiano, non solo non oseranno impedire i vescovi in tali cause, o privarli in qualche modo della loro giurisdizione, o disturbarli, ma non dovranno neppure procedere contro i chierici od altre persone ecclesiastiche, se non dopo che il vescovo richiestone si sia mostrato negligente. Diversamente, i loro processi o le loro ordinanze non abbiano alcun valore e siano tenuti alla riparazione del danno che avessero procurato alle parti.

    Inoltre, se qualcuno, nei casi permessi dal diritto, interpone appello o si lagna di qualche imposizione o, trascorso il biennio di cui sopra, ricorre ad altro giudice, sia tenuto a trasferire, a sue spese, presso il giudice di appello tutti gli atti compiuti presso il vescovo, non senza averlo prima avvertito che qualora volesse dire qualche cosa sulla trattazione della causa, può significarlo al giudice di appello. Nel caso poi che si presentasse colui contro il quale si è fatto appello, sia costretto anche lui a pagare la sua parte delle spese degli atti che sono stati trasferiti, se vorrà servirsene, a meno che l’uso del luogo non sia diverso, e cioè che l’intera spesa sia a carico di chi si appella. Il notaio sia obbligato, dietro il dovuto compenso, a consegnare a chi appella copia degli atti quanto prima, e almeno entro un mese. Se egli differisse con frode la consegna sia sospeso dall’esercizio del suo ufficio ad arbitrio dell’ordinario e sia costretto ad una multa doppia di quanto importi la lite, da dividersi fra colui che si è appellato e i poveri del luogo.

    Quanto al giudice, poi, se anch’egli fosse stato consapevole di questo impedimento, vi avesse partecipato o si fosse opposto in altro modo a che gli atti fossero integralmente consegnati a chi si appella entro i termini sia tenuto alla stessa doppia pena, come detto sopra. Ciò non ostante i privilegi, gli indulti, gli accordi che obbligano solo quelli che li hanno stipulati, e qualsiasi altra consuetudine.

    Canone XXI

    Il santo sinodo, desiderando che in futuro dai decreti da esso emanati non sorga alcun motivo di dubbio, spiegando le parole: "Quegli argomenti che su proposta dei legati e presidenti, sembreranno adatti e idonei allo stesso sinodo a lenire le calamità di questi tempi, a sedare le controversie religiose, a reprimere le false lingue, a correggere gli abusi dei costumi corrotti, a ricondurre nella chiesa una pace vera e cristiana", contenute nel decreto pubblicato nella prima sessione (402), sotto il beatissimo signore nostro Pio IV, dichiara non essere stata sua intenzione che in forza di queste parole si cambiasse in qualche parte il consueto modo di procedere dei concili generali nel trattare le questioni, né che si aggiungesse o si tralasciasse qualche cosa di nuovo in alcuna questione, rispetto a ciò che fino a questo momento è stato stabilito dai sacri canoni o dalla prassi dei concili generali.

    Decreto per l’indizione della futura sessione.

    Il sacrosanto concilio stabilisce, inoltre, e dispone che la prossima futura sessione debba essere celebrata il giovedì dopo la concezione della beata vergine Maria, che sarà il nove dicembre prossimo, con facoltà anche di abbreviare questo termine. In tale sessione si tratterà del sesto capitolo, ora rinviato, degli altri capitoli della riforma già presentati e di altre questioni che si riconnettono ad essa. Se poi sembrasse opportuno e il tempo lo permettesse, si potranno trattare anche alcune dottrine, come sarà proposto a suo tempo nelle congregazioni.


    --------------------------------------------------------------------------------

    Note


    354. Cfr. Eb 7, 12.
    355. Cfr. I Tm 3, 8-10; At 6, 3-6; 21, 8.
    356. II Tm 1, 6-7.
    357. Ct 6, 3 e 9.
    358. Cfr. I Cor 12, 28-29; Ef 4, 11.
    359. At 20, 28.
    360. Cfr. Gv 10, 1.
    361. Cfr. Gv 10, 1-16; 21, 15-17; I e II Tm; Tt e altri.
    362. Cfr. Gv 10, 12-13.
    363. Cfr. I Pt 5, 2-4.
    364. Sessione VI, cc. 1 e 2 de ref. (v. sopra).
    365. Cfr. Ger 48, 10.
    366. Cfr. At 1, 24; Sal 7, 10.
    367. C. 3, V. 7, i n Extrav. comm. (Fr 2, 1300).
    368. C. un., III, 2, in VI (Fr 2. 1019).
    369. Sessione VII, c. 10 de ref. (v. sopra).
    370. Cfr. Sap 4, 9.
    371. Cfr. I Tm 3, 7.
    372. Concilio di Calcedonia, c. 6 (v. sopra).
    373. Cfr. Gen 8, 21.
    374. Concilio di Vienne, c. 17 (COD. 374-376).
    375. Gen 2, 23-24 (Mt 19, 5; Ef 5, 31).
    376. Mt 19, 6; Mc 10, 8-9.
    377. Ef 5, 25.
    378. Ef 5, 32.
    379. Cfr. Lv 18, 6-18.
    380. Cfr. soprattutto Mt 5, 32; 19, 9; Mc 10, 11-12: Lc 16, 18; I Cor 7, 11.
    381. Cfr. Mt 7, 7-8; Gc 1, 5 e altri.
    382. Cfr. I Cor 10, 13.
    383. Cfr. Mt 19, 11-12; I Cor 7, 25-26; 7, 38; Ap 14, 4.
    384. Concilio Lateranense IV, c. 51 (v. sopra).
    385. Cfr. LEONE I, Ep. 12 (PL 54, 647).
    386. Sessione VI, c. 1 de ref.; sessione VII, c. 1; sessione XXII, c. 2 (v. sopra).
    387. Concilio II di Lione, c. 24 (v. sopra).
    388. Sessione V, cc. 1-3 de ref. (v. sopra).
    389. Sessione XIII, cc. 7-8 de ref. (v. sopra).
    390. Concilio Lateranense IV. c. 8 (v. sopra).
    391. Cfr. I Tm 5, 20.
    392. Sessione VI, c. 4 de ref.; sessione VII. c. 8 de ref. (v. sopra).
    393. Sessione XXI, c. 8 de ref. (v. sopra).
    394. Sessione XIII, c. 1; sessione XIV, c. 4; sessione XXII, c. I (v. sopra).
    395. C. 6, X. V 33 (Friedberg 2, 862).
    396. Divina in eminenti, c. 3 V 7 in Extrav. comm. (Friedberg 2. 1300).
    397. Concilio Lateranense III, c. 3 (COD, 212).
    398. Sessione VII, c. 12 de ref. (v. sopra).
    399. C. un., III, 3, in VI (Friedberg 2, 1019).
    400. Sessione VII, c. 6 de ref. (v. sopra).
    401. Cfr. sessione VII, c. 2 de ref. (v. sopra).
    402. Sessione XVII (v. sopra).
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:29 pm

    SESSIONE XXV (3-4 dicembre 1563)

    Decreto sul purgatorio.

    Poiché la chiesa cattolica, istruita dallo Spirito santo, conforme alle sacre scritture e all’antica tradizione, ha insegnato nei sacri concili, e recentissimamente in questo concilio ecumenico (403), che il purgatorio esiste e che le anime lì tenute possono essere aiutate dai suffragi dei fedeli e in modo particolarissimo col santo sacrificio dell’altare, il santo sinodo comanda ai vescovi che con diligenza facciano in modo che la sana dottrina sul purgatorio, quale è stata trasmessa dai santi padri e dai sacri concili (404), sia creduta, ritenuta, insegnata e predicata dappertutto.

    Nelle prediche rivolte al popolo meno istruito, si evitino le questioni più difficili e più sottili, che non servono all’edificazione, e da cui, per lo più, non c’è alcun frutto per la pietà. Così pure non permettano che si diffondano e si trattino dottrine incerte o che possano presentare apparenze di falsità. Proibiscano, inoltre, come scandali e inciampi per i fedeli, quelle questioni che servono (solo) ad una certa curiosità e superstizione e sanno di speculazione.

    I vescovi, inoltre, abbiano cura che i suffragi dei fedeli viventi e cioè i sacrifici delle messe, le preghiere, le elemosine ed altre opere pie, che si sogliono fare dai fedeli per altri fedeli defunti, siano fatti con pietà e devozione secondo l’uso della chiesa e che quei suffragi che secondo le fondazioni dei testatori o per altro motivo devono essere fatti per essi, vengano soddisfatti dai sacerdoti, dai ministri della chiesa e dagli altri che ne avessero l’obbligo, non sommariamente e distrattamente, ma diligentemente e con accuratezza.

    Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini.

    Il santo sinodo comanda a tutti i vescovi e a quelli che hanno l’ufficio e l’incarico di insegnare, che - conforme all’uso della chiesa cattolica e apostolica, tramandato fin dai primi tempi della religione cristiana, al consenso dei santi padri e ai decreti dei sacri concilii, - prima di tutto istruiscano diligentemente i fedeli sull’intercessione dei santi, sulla loro invocazione, sull’onore dovuto alle reliquie, e sull’uso legittimo delle immagini, insegnando che i santi, regnando con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; che è cosa buona ed utile invocarli supplichevolmente e ricorrere alle loro orazioni, alla loro potenza e al loro aiuto, per impetrare da Dio i benefici, per mezzo del suo figlio Gesù Cristo, nostro signore, che è l’unico redentore e salvatore nostro; e che quelli, i quali affermano che i santi - che godono in cielo l’eterna felicità - non devono invocarsi o che essi non pregano per gli uomini o che l’invocarli, perché preghino anche per ciascuno di noi, debba dirsi idolatria, o che ciò è in disaccordo con la parola di Dio e si oppone all’onore del solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (405); o che è sciocco rivolgere le nostre suppliche con la voce o con la mente a quelli che regnano nel cielo, pensano empiamente.

    Insegnino ancora diligentemente che i santi corpi dei martiri e degli altri che vivono con Cristo - un tempo membra vive di Cristo stesso e tempio dello Spirito santo (406) -, e che da lui saranno risuscitati per la vita eterna e glorificati, devono essere venerati dai fedeli, quei corpi, cioè, per mezzo dei quali vengono concessi da Dio agli uomini molti benefici. Perciò quelli che affermano che alle reliquie dei santi non si debba alcuna venerazione ed alcun onore; che esse ed altri resti sacri inutilmente vengono onorati dai fedeli; o che invano si frequentano i luoghi della loro memoria per ottenere il loro aiuto, sono assolutamente da condannarsi, come già da tempo la chiesa li ha condannati e li condanna ancora.

    Inoltre le immagini di Cristo, della Vergine madre di Dio e degli altri santi devono essere tenute e conservate nelle chiese; ad esse si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli (407), ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili - specie da quelli del secondo concilio di Nicea - contro gli avversari delle sacre immagini (408).

    Questo, poi, cerchino di insegnare diligentemente i vescovi: che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con le pitture e con altre immagini, il popolo viene istruito e confermato nel ricordare gli articoli di fede e nella loro assidua meditazione. Ed inoltre, che da tutte le sacre immagini si trae grande frutto, non solo perché vengono ricordati al popolo i benefici e i doni che gli sono stati fatti da Cristo, ma anche perché nei santi sono posti sotto gli occhi dei fedeli le meraviglie e gli esempi salutari di Dio, così che ne ringrazino Dio, cerchino di regolare la loro vita e i loro costumi secondo l’imitazione dei santi, siano spinti ad adorare ed amare Dio e ad esercitare la pietà. Se qualcuno insegnerà o crederà il contrario di questi decreti, sia anatema.

    Se poi, contro queste sante e salutari pratiche, fossero invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente che essi siano senz’altro tolti di mezzo. Pertanto non sia esposta nessuna immagine che esprima false dottrine e sia per i semplici occasione di pericolosi errori.

    Se avverrà che qualche volta debbano rappresentarsi e raffigurarsi le storie e i racconti della sacra scrittura - questo infatti giova al popolo, poco istruito - si insegni ad esso che non per questo viene raffigurata la divinità, quasi che essa possa esser vista con questi occhi corporei o possa esprimersi con colori ed immagini.

    Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza. Così pure, i fedeli non approfittino delle celebrazioni dei santi e della visita alle reliquie per darsi all’abuso del mangiare e del bere, quasi che le feste dei santi debbano celebrarsi col lusso e la libertà morale. Da ultimo, in queste cose sia usata dai vescovi tanta diligenza e tanta cura, che niente appaia disordinato, niente fuori posto e rumoroso, niente profano, niente meno onesto: alla casa di Dio, infatti, si addice la santità (409).

    E perché queste disposizioni vengano osservate più fedelmente, questo santo sinodo stabilisce che non è lecito a nessuno porre o far porre un’immagine inconsueta in un luogo o in una chiesa, per quanto esente, se non è stata prima approvata dal vescovo; né ammettere nuovi miracoli, o accogliere nuove reliquie, se non dopo il giudizio e l’approvazione dello stesso vescovo. Questi, poi, non appena sia venuto a sapere qualche cosa su qualcuno di questi fatti, consultati i teologi ed altre pie persone, faccia quello che crederà conforme alla verità e alla pietà. Se infine si presentasse qualche abuso dubbio o difficile da estirpare o se sorgesse addirittura qualche questione di una certa gravità intorno a questi problemi, il vescovo, prima di decidere aspetti l’opinione del metropolita e dei vescovi della regione nel concilio provinciale. Comunque, le cose siano fatte in modo tale, da non stabilire nulla di nuovo o di inconsueto nella chiesa, senza aver prima consultato il santissimo pontefice romano.

    Decreto sui religiosi e sulle monache.

    Lo stesso santo sinodo, proseguendo la riforma, ha creduto bene stabilire quanto segue.

    Capitolo I

    Il santo concilio non ignora quanto splendore e quanta utilità possa provenire alla chiesa di Dio dai monasteri piamente istituiti e rettamente governati. Perché, quindi, più facilmente e più prontamente venga ripristinata l’antica, regolare disciplina - dove è decaduta - e possa durare a lungo - dove si è mantenuta -, esso ha creduto opportuno comandare (come fa col presente decreto) che tutti i religiosi, sia uomini che donne, conformino e adattino la loro vita alle prescrizioni della regola che essi hanno professato.

    In modo particolare osservino fedelmente quello che riguarda la perfezione della loro professione - come i voti e i precetti di obbedienza, povertà e castità, ed altri particolari precetti di qualche regola od ordine -, e, rispettivamente, quanto riguarda la conservazione della vita comune, del vitto, del vestito. I superiori pongano ogni cura e diligenza, sia nei capitoli generali e provinciali, che nelle loro visite, - che non trascureranno di fare a suo tempo - perché non si venga meno su questi punti, essendo chiaro che essi non possono usare larghezza in ciò che appartiene alla sostanza della vita religiosa. Se, infatti, non si osserveranno con esattezza quei punti che formano la base e il fondamento di tutta la vita religiosa, necessariamente dovrà cadere tutto l’edificio.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:29 pm

    Capitolo II

    A nessun religioso, quindi, sia uomo che donna, sia permesso possedere o tenere in nome proprio, o anche a nome del convento, beni immobili o mobili, di qualsiasi specie, anche se fossero stati acquistati da loro in qualsiasi modo; ma vengano subito consegnati al superiore ed incorporati al convento. Né sia lecito, in seguito, ai superiori concedere beni stabili ad alcun religioso, anche solo in usufrutto o in uso, in amministrazione o in commenda.

    Quanto all’amministrazione dei beni dei monasteri o dei conventi, essa sia affidata solo agli officiali degli stessi monasteri, amovibili a volontà dei superiori. L’uso dei beni mobili sia regolato dai superiori in modo tale, che nell’insieme sia conforme allo stato di povertà che hanno professato; non vi sia niente di superfluo né niente di necessario venga negato. Se qualcuno, diversamente da quanto è stato prescritto, sarà trovato in possesso di qualche cosa sia privato per due anni della voce attiva e passiva, e venga anche punito secondo le costituzioni della sua regola e del suo ordine.

    Capitolo III

    Il santo concilio concede a tutti i monasteri, sia maschili che femminili, anche dei mendicanti (eccettuate le case dei frati Cappuccini di S. Francesco, e di quelli che si chiamano ‘minori dell’osservanza’), anche a quelli ai quali era proibito dalle loro costituzioni o non era stato concesso da un privilegio apostolico, che in seguito sia lecito ad essi possedere beni immobili. Se qualcuno dei luoghi predetti, a cui per autorità apostolica era stato concesso di possedere simili beni, ne fossero stati spogliati, il sinodo stabilisce che debbano essere loro restituiti. In questi monasteri e case, sia di uomini che di donne, possiedano o non possiedano beni immobili, vi sia solo quel numero (di religiosi), - ed in avvenire sia mantenuto - che possa essere facilmente sostentato con i redditi propri dei monasteri o con le consuete elemosine. In seguito luoghi simili non siano eretti senza preventiva licenza del vescovo nella cui diocesi devono essere costruiti.

    Capitolo IV

    Il santo sinodo proibisce che un religioso, senza licenza del suo superiore, col pretesto della predicazione, della lettura, o di qualsiasi opera pia, si metta a servizio di un prelato, di un principe, o di una università o comune, o di qualsiasi altra persona o luogo. Né in ciò saranno a suo favore privilegi e facoltà, che possa aver ottenuto da altri in questa materia. Se agisse diversamente sia punito, come disobbediente, a giudizio del superiore.

    Non sia neanche permesso ai religiosi di allontanarsi dai loro conventi, neppure con la scusa di recarsi dai loro superiori, se non fossero stati da essi mandati o fatti chiamare. E chi non fosse trovato in possesso di tale mandato, ottenuto per iscritto, sia punito dagli ordinari locali come disertore del suo istituto.

    Quelli, inoltre, che vengono mandati presso le università per ragione di studio, abitino solo nei conventi. Diversamente si proceda dagli ordinari contro di essi.

    Capitolo V

    Il santo sinodo, rinnovando la costituzione di Bonifacio VIII Periculoso (410), sotto minaccia del divino giudizio e dell’eterna maledizione, comanda a tutti i vescovi di fare assolutamente in modo che in tutti i monasteri la clausura delle monache, se fosse stata violata, sia diligentemente ripristinata; se invece fosse ancora intatta, venga conservata. Ciò potranno fare con potestà ordinaria, nei monasteri loro soggetti, negli altri per autorità della sede apostolica. Reprimano quelli che non obbediscono e contraddicono, con le censure ecclesiastiche e con altre pene, non tenendo in alcuna considerazione qualsiasi appello o ricorrendo anche, se necessario, per questo scopo, all’aiuto del braccio secolare: aiuto che il santo sinodo esorta i principi cristiani a prestare, e di cui fa obbligo, sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto, a tutte le autorità secolari.

    Quanto alle monache, a nessuna sia lecito, dopo la professione, uscire dal monastero, anche per breve tempo, con qualsiasi pretesto, se non per un legittimo motivo che il vescovo dovrà approvare, non ostante qualsiasi indulto e privilegio.

    Così pure non sia permesso a nessuno, di qualsiasi genere o condizione egli fosse, di qualsiasi sesso ed età, entrare nel recinto del monastero se non ha la licenza del vescovo o del superiore, ottenuta per iscritto, sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto. Il vescovo e il superiore da parte loro dovranno dare questa licenza solo nei casi necessari e non potrà darla nessun altro, anche in forza di qualsiasi facoltà o indulto, già concesso o che venisse concesso in seguito.

    Poiché quei monasteri di monache, che si trovano fuori delle mura della città o del villaggio, sono esposti alla preda e ad altri pericoli da parte dei malfattori e spesso senza alcuna difesa, se i vescovi e gli altri superiori lo crederanno, facciano in modo che le monache siano trasferite da essi a quelli nuovi - o a quelli vecchi - che si trovano entro le città o villaggi più abitati; richiedendo anche, se fosse necessario, l’aiuto del braccio secolare. Quelli che lo impedissero o che non obbedissero, siano costretti con le censure ecclesiastiche.

    Capitolo VI

    Nella elezione di qualsiasi superiore, abate, officiale temporaneo e di altri, così pure dei generali, delle abbadesse e delle altre superiore, perché tutto sia fatto regolarmente e senza alcun inganno, il santo sinodo comanda severamente, prima di tutto, che tutte le autorità nominate debbano essere elette con voto segreto, in modo che i nomi dei singoli elettori non vengano mai resi noti. E non sia neppure lecito, in futuro, delegare provinciali o abati, priori o altri titolari qualsiasi a fare l’elezione, o a supplire le volontà e i voti degli assenti.

    Se poi qualcuno fosse eletto contro la costituzione di questo decreto, l’elezione sia nulla e chi ha consentito ad essere eletto provinciale, abate o priore in seguito sia considerato inabile a qualsiasi carica, nel suo ordine; e le facoltà concesse in questo campo dovranno essere considerate senz’altro abrogate, e qualora in seguito ne fossero concesse altre, si ritengano come ottenute con frode.

    Capitolo VII

    Sia eletta un’abbadessa e una priora, (o con qualsiasi altro nome venga chiamata la superiora) di almeno quarant’anni e che abbia vissuto lodevolmente per otto anni dopo la professione religiosa. Se non vi fosse nessuna persona, nel monastero, con questi requisiti, si potrà scegliere da un altro monastero dello stesso ordine. Se anche questo sembrasse difficile al superiore che presiede all’elezione, ne venga scelta una dello stesso monastero, tra quelle che abbiano superato i trent’anni ed abbiano vissuto rettamente almeno per cinque anni dopo la professione; ciò, con l’approvazione del vescovo o di altro superiore.

    Nessuna sia messa a capo di due monasteri; e se qualcuna ne avesse, in qualsiasi modo, due o più, sia costretta a lasciarli entro sei mesi, ritenendosene uno. Dopo tale periodo, se non avesse ancora rinunziato ad essi, per disposizione stessa del diritto siano considerati tutti vacanti.

    Chi regola l’elezione, sia il vescovo o altro superiore, non entri nel monastero propriamente detto; ma ascolti o riceva i voti delle singole monache davanti alla grata. Quanto al resto, siano osservate le costituzioni dei singoli ordini o monasteri.

    Capitolo VIII

    Tutti quei monasteri che non dipendono dai capitoli generali o dai vescovi, e che non hanno i loro visitatori ordinari regolari, ma che sono governati sotto l’immediata protezione e direzione della sede apostolica, entro un anno dalla fine del presente concilio, - e poi ogni triennio, - siano obbligati a riunirsi in congregazioni, secondo le prescrizioni della costituzione di Innocenzo III nel concilio generale, che inizia: In singulis (411), ed ivi eleggere delle persone religiose, che trattino e prendano decisioni sul modo di erezione e sull’ordine di queste congregazioni e sulle regole da osservarsi in esse. Qualora fossero in ciò negligenti, il metropolita, nella cui provincia si trovano questi monasteri potrà convocarli, come delegato della sede apostolica, per queste questioni.

    Se nei confini di una sola provincia il numero di tali monasteri non fosse sufficiente a costituire una congregazione, potranno formarne una i monasteri di due o tre province. Costituite queste congregazioni, i loro capitoli generali, i superiori e i visitatori da essi eletti, avranno sui monasteri della loro congregazione e sui religiosi che ne fanno parte la stessa autorità che gli altri superiori e visitatori hanno negli altri ordini. Siano tenuti, inoltre, a visitare con frequenza i monasteri della loro congregazione ed attendere alla loro riforma, e ad osservare le prescrizioni dei sacri canoni e di questo sacro concilio. Se poi, non ostante le pressioni del metropolita, essi non si dessero pensiero di eseguire le precedenti disposizioni, siano soggetti nelle diocesi in cui si trovano ai vescovi, come delegati della sede apostolica.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:30 pm

    Capitolo IX

    I monasteri delle monache immediatamente soggetti alla sede apostolica, anche sotto il nome di "capitoli di S. Pietro" o "di S. Giovanni" - o comunque si chiamino - siano governati dai vescovi, come delegati della stessa santa sede, non ostante qualsiasi cosa in contrario. Quelli, invece, che sono retti da persone scelte nei capitoli generali o da altri religiosi, rimangano in loro custodia e sotto la loro cura.

    Capitolo X

    Facciano bene attenzione i vescovi e gli altri superiori di monasteri di monache, che nelle loro costituzioni le monache siano esortate a confessare i loro peccati e a ricevere la sacrosanta eucarestia almeno una volta al mese, perché, premunite di questo salutare presidio, superino con energia tutti gli assalti del demonio.

    Oltre al confessore ordinario, due o tre volte all’anno sia dato dal vescovo o dagli altri superiori un altro confessore straordinario, che deve ascoltare le confessioni di tutte.

    Il concilio proibisce che il santissimo corpo di Cristo venga conservato nel loro coro o entro il monastero, e non, invece, nella chiesa pubblica, non ostante qualsiasi indulto o privilegio.

    Capitolo XI

    In quei monasteri ed in quelle case, maschili o femminili, cui è annessa la cura delle anime di persone secolari - oltre a quelle che appartengono alla famiglia di tali monasteri o enti - le persone, tanto religiose che secolari, che esercitano tale cura, in ciò che riguarda la predetta cura e l’amministrazione dei sacramenti, siano direttamente soggette alla giurisdizione, alla visita e alla correzione del vescovo, nella cui diocesi si trovano; nessuno sia addetto a questa cura, anche se amovibile a volontà, senza il suo consenso e senza aver prima subito l’esame del vescovo stesso o di un suo vicario.

    Eccettuiamo il monastero di Cluny con i suoi territori ed anche quei monasteri o luoghi, in cui gli abati generali o altri superiori religiosi esercitano la giurisdizione vescovile e temporale sui parroci e sui parrocchiani, salvo tuttavia il diritto dei vescovi, che hanno su questi luoghi e persone una giurisdizione maggiore.

    Capitolo XII

    Non solo le censure e gli interdetti emanati dalla sede apostolica, ma anche quelli promulgati dagli ordinari, siano pubblicati dai religiosi a richiesta del vescovo, nelle loro chiese ed osservati. Così pure i giorni festivi, che lo stesso vescovo avesse comandato di osservare nella sua diocesi, siano osservati da tutti gli esenti, anche regolari.

    Capitolo XIII

    Quanto alle controversie sulla precedenza, che con grandissimo scandalo sorgono spessissimo tra gli ecclesiastici, sia secolari che regolari, in occasione di pubbliche processioni, nei funerali, nel portare il baldacchino e simili, il vescovo, senza alcuna possibilità di appello e senza badare ad altro, cerchi di comporle tutte. Tutti gli esenti, poi, tanto chierici secolari che regolari, anche monaci, chiamati alle pubbliche processioni, siano costretti ad andarvi, eccetto solo quelli che vivono sempre nella più stretta clausura.

    Capitolo XIV

    Ogni religioso non soggetto al vescovo, che vive dentro le mura del monastero, ma che fuori ha mancato talmente da essere di scandalo al popolo, ad istanza del vescovo ed entro un termine da lui stabilito, venga punito gravemente dal suo superiore, il quale comunichi al vescovo stesso l’avvenuta punizione. Se non lo punisse, sia privato del suo ufficio dal suo superiore e colui che ha mancato sarà punito dal vescovo.

    Capitolo XV

    In qualsiasi congregazione religiosa, sia maschile che femminile, la professione non sia emessa prima che si sia compiuto il sedicesimo anno di età. Chi non avesse fatto almeno un anno di probazione dal ricevimento dell’abito, non sia ammesso ad essa. La professione fatta prima sia nulla. Essa, quindi, non importerà alcun obbligo di osservare la regola di nessuna congregazione e di nessun ordine e di sottostare a qualsiasi altro effetto.

    Capitolo XVI

    Nessuna rinunzia fatta, nessuna obbligazione assunta, nei due mesi che precedono la professione anche con giuramento o in favore di qualsiasi causa pia, abbia valore, se non con licenza del vescovo o del suo vicario, e si sott’intenda sempre che non sortirà il suo effetto, se non quando sarà avvenuta la professione. Le rinunzie fatte diversamente, anche se con espressa rinunzia a questo favore e con giuramento, siano irrite e di nessun effetto. Finito il noviziato, i superiori ammettano alla professione i novizi che avranno trovato adatti, altrimenti li dimettano dal monastero.

    Con questo provvedimento, tuttavia, il santo sinodo non intende innovare nulla per quanto riguarda l’ordine dei chierici della società di Gesù né proibire che esso possa servire il Signore e la sua chiesa secondo il suo pio metodo di vita, approvato dalla sede apostolica.

    Eccetto il vitto e il vestito del novizio o della novizia per il periodo della prova, prima della professione non sia dato nulla dei loro beni al monastero, dai genitori o dai parenti, o dai loro procuratori, con qualsiasi pretesto, perché non avvenga che con questa scusa: che, cioè, il monastero possiede tutti o la maggior parte dei loro beni, non possano andarsene, e che difficilmente, se se ne andassero, potrebbero ricuperarli. Anzi, il santo concilio fa espresso obbligo a quelli che danno e a quelli che ricevono, sotto minaccia di scomunica, di non agire assolutamente in tal modo; e che sia restituito a chi se ne va prima della professione ciò che era suo.

    Il vescovo obblighi ad osservare questa prescrizione anche con le censure ecclesiastiche, se sarà necessario.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:30 pm

    Capitolo XVII

    Il santo concilio, preoccupandosi della libertà della professione delle fanciulle che si dedicano a Dio, stabilisce e prescrive che se una fanciulla, che vuole indossare l’abito religioso, ha più di dodici anni, non possa riceverlo - né essa od altra possa poi emettere la professione - prima che il vescovo o il suo vicario (qualora egli fosse assente o impedito), o qualche altro incaricato da essi a loro spese, si sia reso conto con diligenza della volontà della fanciulla: se, cioè, essa fosse costretta, o ingannata, e se sappia quello che fa.

    Se, quindi, si troverà che la sua volontà è pia e libera, e che ha i requisiti necessari secondo la regola di quel monastero e di quell’ordine e che il monastero è adatto, le sia permesso fare la professione. Perché il vescovo non ignori il tempo di tale professione, la superiora del monastero è tenuta ad informarlo un mese prima. Se essa mancasse di fare ciò, sia sospesa dal suo ufficio per tutto il tempo che sembrerà opportuno al vescovo.

    Capitolo XVIII

    Questo santo sinodo pronuncia l’anatema contro tutte e singole le persone di qualsiasi qualità o condizione, sia chierici che laici, secolari o regolari, qualsiasi dignità essi abbiano - che in qualsiasi maniera costringessero una fanciulla, una vedova, o altra donna qualsiasi, ad entrare in monastero o a indossare l’abito di qualsiasi ordine o ad emettere la professione religiosa contro la sua volontà fuorché nei casi permessi dal diritto; e così pure quelli che dessero il loro consiglio, prestassero il loro aiuto e il loro favore; e quelli che, pur sapendo che essa non entra in monastero, non riceve l’abito, non fa la professione di sua volontà, siano stati presenti a quest’atto, abbiano dato il loro consenso o abbiano interposto la loro autorità, in qualsiasi maniera.

    A simile anatema sottopone quelli che senza giusto motivo impedissero in qualsiasi modo il santo proposito delle vergini o di altre donne di prendere l’abito o di emettere il voto.

    Nei monasteri soggetti al vescovo, ma anche in qualsiasi altro monastero, si osservino tutte e singole quelle norme che bisogna osservare prima e durante la stessa professione.

    Si eccettuano, tuttavia, tra queste, quelle donne che sono dette penitenti o convertite, per le quali si osservino le costituzioni loro proprie.

    Capitolo XIX

    Ogni religioso, il quale affermi di essere entrato in religione per forza e per timore o anche di aver fatto la professione prima dell’età prescritta, o qualche cosa di simile e voglia lasciare l’abito in qualsiasi modo; o che se ne voglia andare anche con l’abito, senza il permesso dei superiori, non sia preso in considerazione, se non entro il primo quinquennio dal giorno della sua professione ed esponga dinanzi al suo superiore e all’ordinario i propri motivi.

    Se poi egli lasciasse spontaneamente l’abito prima, non gli sia permesso far valere alcun motivo, ma sia costretto a tornare in monastero, e sia punito come apostata; e nel frattempo non godrà di nessun privilegio del proprio ordine.

    Nessun religioso, inoltre, qualsiasi facoltà possa avere, sia trasferito ad altro ordine religioso meno severo. E non si conceda ad alcun religioso di portare occultamente l’abito del suo ordine.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:31 pm

    Capitolo XX

    Gli abati, capi di ordini, e gli altri superiori di essi, non soggetti a vescovi, che hanno legittima giurisdizione su altri monasteri inferiori o su priorati, visitino ex officio, ciascuno nel suo territorio e a suo tempo e luogo, quegli stessi monasteri e priorati, anche se fossero stati dati in commenda. E poiché questi sono sottoposti ai capi dei loro ordini, il santo sinodo dichiara che essi non sono compresi in quelle norme che altra volta sono state emanate per i monasteri dati in commenda, e che quelli che sono a capo di tali ordini sono tenuti a ricevere i visitatori e ad eseguire le loro disposizioni.

    I monasteri che sono i principali dell’ordine, siano visitati secondo le costituzioni della santa sede e di ciascun ordine. E finché dureranno tali commende, i priori claustrali o - nei priorati dei conventi che hanno dei sottopriori - quelli che sono addetti alle correzioni e alla direzione spirituale, siano eletti dai capitoli generali o dai visitatori degli stessi ordini.

    In ogni altro campo i privilegi e le facoltà di questi ordini, riguardanti le loro persone, i loro luoghi, i loro diritti, rimangano fermi ed intatti.

    Capitolo XXI

    Poiché la maggior parte dei monasteri - anche abbazie, priorati e prepositure -, per la cattiva amministrazione di quelli cui erano stati affidati, hanno sofferto non lievi danni, sia nel campo spirituale che temporale, il santo sinodo desidera assolutamente ricondurli alla disciplina propria della vita monastica.

    Ma la condizione dei tempi presenti è dura e difficile. E non si può apportare un rimedio comune a tutti, subito e in ogni luogo, come si desidererebbe.

    Perché, tuttavia, non tralasci nessun provvedimento con cui si possa un giorno provvedere salutarmente ai mali predetti, primo: esso confida che il sommo pontefice romano nella sua pietà e prudenza farà del suo meglio, perché, secondo le esigenze dei nostri tempi, a quelli che ora sono affidati in commenda e che hanno propri conventi, vengano preposti religiosi dello stesso ordine, che abbiano fatto la loro professione e che possano dirigere e guidare il gregge. Quelli che si renderanno vacanti in avvenire, non siano conferiti se non a religiosi di sperimentata virtù e santità.

    Quanto poi ai monasteri principali e più importanti degli ordini - nonché le abbazie e i priorati detti filiali di quelli chi presentemente li ha in commenda, - a meno che non sia stato loro provvisto con regolare successore - fra sei mesi dovrà professarne solennemente la regola o lasciarli. Diversamente, queste commende si considerino vacanti ipso iure.

    E perché in tutte le singole prescrizioni precedenti non possa usarsi alcun inganno, il santo sinodo comanda che nella provvista di tali monasteri venga espressamente nominata la qualità di ciascuno, e che una provvista fatta diversamente sia considerata illegale e non abbia affatto in suo favore il susseguente possesso, anche triennale.

    Capitolo XXII

    Il santo sinodo comanda che le prescrizioni dei precedenti decreti e di ogni loro singola parte siano osservate in tutti i conventi e monasteri, nei collegi e nelle case di monaci e religiosi di qualsiasi specie, di qualsiasi tipo di monache, vergini e vedove, anche se esse vivano sotto il governo degli ordini militari, - anche di Gerusalemme -, con qualsiasi nome esse siano indicate, sotto qualsiasi regola e costituzione, e sotto qualsiasi tutela, amministrazione, soggezione, annessione, o dipendenza da qualsiasi ordine religioso, mendicante o non mendicante, di altri monaci regolari, o di canonici di qualsiasi tipo.

    Tutto ciò, non ostante qualsiasi privilegio di tutti e singoli questi ordini, qualsiasi possa esser la forma dell’espressione usata; anche quelli contenuti nella costituzione detta Mare magnum; quelli ottenuti nella fondazione; non ostante le costituzioni e le regole, anche giurate; le consuetudini e le prescrizioni, anche immemorabili.

    Se vi fossero dei religiosi, sia uomini che donne, che vivono sotto una regola più severa e norme più strette, il santo sinodo (eccettuata la facoltà di avere beni immobili in comune) non intende allontanarli dal loro metodo di vita e dalla loro osservanza.

    E poiché il santo sinodo desidera che tutto quello che è stato sopra ricordato sia mandato ad effetto in ogni particolare, comanda a tutti i vescovi che, nei monasteri loro soggetti e in tutti gli altri loro affidati con i precedenti decreti e così pure a tutti gli abati e generali e agli altri superiori degli ordini accennati, che le prescrizioni suddette vengano eseguite immediatamente. Se qualcosa non sarà eseguita, i concili provinciali suppliscano e puniscano la negligenza dei vescovi. I capitoli provinciali e generali dei religiosi, e, in mancanza dei capitoli generali, i concili provinciali, provvedano con la designazione di alcuni dello stesso ordine.

    Il santo sinodo, inoltre, esorta tutti i re, principi, repubbliche, autorità - e lo comanda loro in virtù di santa obbedienza - a voler prestare il loro aiuto e a interporre la loro autorità - quando ne fossero richiesti - a favore dei vescovi, degli abati, dei generali e degli altri superiori, nell’esecuzione della riforma sopra descritta. Così quanto è stato prescritto potrà esser felicemente eseguito, a lode di Dio onnipotente.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:31 pm

    Decreto di riforma generale.

    Capitolo I

    Sarebbe desiderabile che chi riceve il ministero episcopale conosca i propri doveri e comprenda di essere stato chiamato non per cercare la propria utilità, né per procurarsi ricchezze o vivere nel lusso, ma a fatiche e preoccupazioni per la gloria di Dio. Non c’è dubbio che anche gli altri fedeli saranno più facilmente incitati alla religione e all’onestà, se vedranno i loro pastori preoccupati non delle cose del mondo, ma della salvezza delle anime e della patria celeste.

    Il santo sinodo comprende che questi principi sono fondamentali per il rinnovamento della disciplina nella chiesa ed esorta tutti i vescovi perché, meditandoli spesso, anche con i fatti stessi e le azioni della vita, si mostrino conformi al loro ufficio: cosa che può considerarsi un continuo modo di predicare. E prima di tutto, diano un andamento tale a tutto il loro modo di vivere, che gli altri possano prendere da essi esempio di frugalità, di modestia, di continenza e di umiltà, che ci rende tanto graditi a Dio.

    Sull’esempio, quindi, di quanto prescrissero i nostri padri al concilio di Cartagine (412), non solo comanda che i vescovi si contentino di una modesta suppellettile, di una sobria mensa e di un vitto frugale, ma che si guardino bene perché nel resto della loro vita e in tutta la loro casa non vi sia nulla di alieno da questo santo genere di vita, che non mostri zelo per Iddio e disprezzo per le vanità.

    In modo particolare, poi, proibisce loro assolutamente di cercare di favorire esageratamente i loro parenti e familiari con i redditi della chiesa, poiché anche i canoni degli apostoli proibiscono loro di donare ai loro parenti i beni ecclesiastici che sono di Dio. Se poi fossero poveri, li diano loro come poveri, ma non li sottraggano e non li dissipino per essi. Anzi il santo sinodo li esorta vivamente, perché depongano del tutto questo affetto umano della carne verso i fratelli, i nipoti e i parenti, da cui nella chiesa hanno avuto origine tanti mali.

    Le cose dette dei vescovi non solo devono valere - tenuto conto del grado di ciascuno - per tutti quelli che hanno benefici ecclesiastici, sia regolari che secolari, ma si stabilisce che debbano valere anche per i cardinali della santa chiesa romana, poiché sarebbe inconcepibile che quelli col consiglio dei quali il romano pontefice governa la chiesa universale, non debbano poi brillare per le virtù e per una vita castigata, che attiri a buon diritto gli sguardi di tutti.

    Capitolo II

    La tristezza dei tempi e la malizia delle eresie, che vanno sempre crescendo, costringe a non trascurare nulla per l’edificazione dei popoli e la difesa della fede cattolica. Il santo concilio, quindi, fa obbligo a tutti i patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi e a tutti gli altri che per diritto o per consuetudine devono prender parte al concilio provinciale, che nel primo concilio provinciale, che dovrà tenersi dopo la fine del presente sinodo, accettino apertamente tutte e singole le definizioni e i decreti di questo santo concilio; che promettano e facciano professione di vera obbedienza al sommo pontefice romano. Dovranno anche respingere e anatematizzare pubblicamente tutte le eresie condannate dai sacri canoni e dai concili generali, specialmente da questo.

    Lo stesso faranno, per l’avvenire, al primo sinodo provinciale cui parteciperanno, quelli che saranno promossi patriarchi, primati, arcivescovi e vescovi. Se qualcuno di questi (Dio non voglia!) si rifiutasse, i vescovi comprovinciali dovranno avvertirne subito il romano pontefice, sotto pena della divina indignazione. E intanto si astengano dalla sua comunione.

    Tutti quelli, poi, che, sia al presente, sia in futuro, avranno dei benefici ecclesiastici, e quelli che devono prendere parte al sinodo diocesano faranno la stessa cosa nel primo sinodo. Se non lo facessero, siano puniti secondo le prescrizioni dei sacri cànoni.

    Tutti quelli, inoltre, che hanno il dovere di curare le università e gli studi generali, di visitarli e di riformarli, facciano in modo che queste stesse università accettino integralmente i canoni e i decreti di questo santo sinodo, e che i maestri, i dottori e gli altri insegnino ed interpretino le verità della fede cattolica alla luce di essi, e si obblighino a seguire questo metodo all’inizio di ogni anno con un solenne giuramento. Inoltre, se vi fossero altre cose, nelle università, che avessero bisogno di riforma, quelli, cui spetta, le emendino per l’aumento della religione e della disciplina ecclesiastica.

    Le università che sono direttamente sotto la protezione del pontefice romano e sono soggette alla sua visita, sua santità cercherà di farle visitare e riformare salutarmente da suoi delegati, nel modo descritto sopra e come a lui sembrerà utile.

    Capitolo III

    Quantunque la spada della scomunica sia il nerbo della disciplina ecclesiastica e sia molto utile a tenere a freno i popoli, tuttavia è da usarsi con molta parsimonia e cautela, perché l’esperienza insegna che, se essa viene adoperata senza la dovuta considerazione e per motivi non gravi, è piuttosto disprezzata che temuta, e porta piuttosto la rovina che la salvezza.

    Quindi, le scomuniche che, premesse le ammonizioni, tendono a ottenere confessioni, o sono comminate per cose perdute o rubate, non siano assolutamente decise da altri che dal vescovo, e anche allora se non per cose di una certa importanza, e dopo che il caso sia stato diligentemente esaminato dal vescovo con matura riflessione, e faccia impressione sul suo animo. Né si lasci indurre a concederla dall’autorità di qualsiasi secolare, neppure dei pubblici poteri. Ma tutta la questione rimanga affidata al suo giudizio e alla sua coscienza, e lui solo ne giudichi, tenuto conto della cosa, del luogo, della persona, delle circostanze.

    Si comanda a tutti i giudici ecclesiastici, di qualunque dignità, che, ogni qualvolta nelle cause giudiziarie essi potranno fare con autorità propria una esecuzione reale o personale, in qualsiasi momento del giudizio, si astengano dalle censure ecclesiastiche o dall’interdetto. Nelle cause civili, però, che in qualsiasi modo riguardano il Soro ecclesiastico, sarà lecito, se sembrerà loro opportuno, procedere contro chiunque, anche contro laici, e definire le cause con multe pecuniarie - che verranno assegnate ai luoghi pii ivi esistenti, non appena riscosse - col prendere pegni, con l’incarcerare persone, - cose che potranno fare per mezzo di esecutori propri o di altri -; o anche con la privazione dei benefici e con altri mezzi offerti dal diritto. Ma se l’esecuzione reale o personale contro i responsabili non potesse essere fatta in questo modo e si avesse contumacia verso il giudice, allora egli, oltre che con le altre pene, potrà colpirli anche con la scomunica, a suo arbitrio.

    Anche nelle cause criminali, quando può aver luogo l’esecuzione reale e personale accennata sopra, si dovrà fare in modo da astenersi dalle censure. Ma se questa esecuzione non potesse avere luogo facilmente, sarà permesso al giudice servirsi di sanzioni spirituali contro i colpevoli, se, però, la qualità della colpa, - e non senza previa ammonizione, fatta almeno per due volte, anche con editto - lo richieda.

    Sia poi assolutamente illecito a qualsiasi autorità secolare, proibire al giudice ecclesiastico di scomunicare qualcuno, o comandare di revocare la scomunica, col pretesto che non sono state osservate le norme del presente decreto. Queste, infatti, sono cose che riguardano gli ecclesiastici e non i secolari. Qualsiasi scomunicato, inoltre, se dopo le legittime ammonizioni non si ravvede, non solo non potrà essere ammesso ai sacramenti, alla comunione e alla familiarità con i fedeli, ma qualora, irretito nelle censure, con animo impenitente vivesse miseramente in esse per un anno, si potrà anche procedere contro di lui come sospetto di eresia.
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    Messaggio  Stephanos Lun Giu 30, 2008 5:31 pm

    Capitolo IV

    Avviene spesso in alcune chiese che il numero delle messe da celebrarsi per i vari lasciti dei defunti sia tanto grande, da non potersi soddisfare ad esse nei singoli giorni voluti dai testatori o che l’elemosina da essi lasciata per celebrare sia tanto modesta, da non potersi trovare facilmente chi voglia sobbarcarsi a questo incarico. Per cui restano inadempiute le pie volontà dei testatori e si gravano le coscienze di coloro cui incombono questi doveri.

    Il santo sinodo, desiderando che questi lasciti ad usi pii siano soddisfatti quanto più pienamente ed utilmente è possibile, dà facoltà ai vescovi, abati e generali di ordini, perché gli uni nel sinodo diocesano, gli altri nei loro capitoli generali, dopo aver diligentemente studiato la questione, possano stabilire secondo la loro coscienza, quello che a loro sembrerà giovare maggiormente all’onore e al culto di Dio e alla utilità delle chiese in modo, però, che sia fatta la commemorazione dei defunti che hanno lasciato legati pii per la salute delle loro anime.

    Capitolo V

    La logica richiede che a quelle cose che sono bene ordinate, non si rechi pregiudizio con disposizioni contrarie.

    Quando, perciò, nella erezione o fondazione di benefici di qualsiasi natura, o in altre costituzioni si richiedono certe qualità, o sono annessi ad essi determinati oneri, nel conferimento di qualsiasi beneficio o in qualsiasi altra disposizione non si deve derogare a queste prescrizioni.

    Le stesse norme si osservino per le prebende teologali, magistrali, dottorali, presbiterali, diaconali, suddiaconali, quando fossero state così costituite, di modo che in nulla si venga meno, in nessuna provvista, a ciò che riguarda le loro qualità o gli ordini. Ogni provvista fatta in deroga a queste norme, sia considerata illegittima.

    Capitolo VI

    Il santo sinodo stabilisce che in tutte le chiese cattedrali e collegiate venga osservato il decreto emanato sotto Paolo III, di felice memoria, che comincia con le parole: Capitula cathedralium (413). Ciò, non solo quando il vescovo le visita, ma anche quando ex officio o, dietro richiesta procede contro qualcuno, conforme a quanto è prescritto in questo stesso decreto. Quando tuttavia, procede fuori della visita, si osservino queste norme. E cioè:

    Il capitolo, all’inizio di ogni anno, scelga due propri membri, secondo il cui consiglio e col cui consenso il vescovo - o il suo vicario - sia tenuto a procedere sia nell’istruire il processo, che negli altri atti fino alla conclusione della causa compresa, - tuttavia dinanzi al notaio dello stesso vescovo e nella sua casa, o nel consueto tribunale.

    I due abbiano un solo voto ed uno abbia facoltà di aderire al vescovo. Se tutti e due in qualche atto (sia la sentenza interlocutoria, sia definitiva), discordassero dal vescovo, allora entro lo spazio di sei giorni, insieme col vescovo, eleggano un terzo membro; e se in questa elezione discordassero, l’elezione sia devoluta al vescovo più vicino. E così la questione, in cui v’era disaccordo, venga risolta secondo l’opinione di quella parte con cui il terzo si troverà d’accordo. In caso diverso, il processo e tutte le sue conseguenze siano nulli, e non abbiano alcun effetto giuridico.

    Nelle questioni criminali di incontinenza, di cui nel decreto sui concubinari (414) e così pure nelle colpe più gravi che importassero la deposizione o la degradazione, quando si teme la fuga, perché non venga eluso il giudizio e quindi c’è bisogno della detenzione personale, il vescovo, all’inizio, potrà procedere da solo ad una sommaria informazione e alla necessaria detenzione, osservando, tuttavia, nel resto, l’ordine sopra descritto. In ogni caso, però, si abbia l’accortezza di custodire i colpevoli - naturalmente secondo la qualità della colpa e delle persone - in luogo decente.

    Ai vescovi, inoltre si attribuisca l’onore dovuto alla loro dignità. Nel coro e nel capitolo, nelle processioni e nelle altre pubbliche manifestazioni, abbiano il primo posto, il luogo che essi stessi si scelgono e la maggiore autorità in ogni cosa. Se essi, inoltre, hanno qualcosa da proporre alla discussione dei canonici, e non si tratta di cosa che riguardi l’utilità propria o dei loro familiari, i vescovi stessi convochino il capitolo, chiedano i voti e concludano secondo questi. Assente il vescovo, ciò sia fatto senz’altro da quei membri del capitolo, cui spetta per diritto o per consuetudine, senza che venga ammesso il vicario del vescovo. Nelle altre cose, la giurisdizione e i poteri del capitolo - se ne avesse - e l’amministrazione dei beni sia assolutamente salva ed intatta.

    Quelli che non hanno dignità e non appartengono al capitolo, nelle cause ecclesiastiche siano tutti soggetti al vescovo, non ostante i privilegi, che competessero anche secondo le tavole di fondazione, le consuetudini, anche immemorabili, le sentenze, i giuramenti, gli accordi, che obblighino solo i loro autori. Si eccettuano, tuttavia, tutti i privilegi concessi alle università degli studi generali, o ai loro membri.

    Tutte queste norme, però, ed ogni singola loro disposizione non si applicheranno a quelle chiese, dove i vescovi o i loro vicari in forza delle costituzioni, di privilegi, di consuetudini, di accordi, o di qualunque altra norma avessero una potestà, un’autorità e una giurisdizione maggiore di quanto non sia stato stabilito col presente decreto. Né il santo sinodo intende derogare ai loro poteri.

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