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    Intervista all'abbé Barthe e il "non-senso" della richiesta alla San Pio X di "riconsocre" un Concilio già "riconosciuto"!

    Stephanos
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    Messaggio  Stephanos Dom Mar 08, 2009 12:05 pm

    Note dell'abbé Barthe

    Fonte: MessaInLatino


    Dopo la strumentalizzazione del deplorabile “affaire” Williamson, coloro che si oppongono ad una riconciliazione della comunità di Mons. Lefebvre strumentalizzano alcune dichiarazioni maldestre per scomunicarla di nuovo in aeternum. Ora il loro argomento è una montatura erronea.

    1 La questione fondamentale: rifiutare o accettare quale Vaticano II?

    Che lo si voglia o no, “l’accettazione del Concilio” è diventato un tema ideologico per far passare da quaranta anni gli abusi più gravi. Il discorso del Papa alla Curia del 22 dicembre 2005 ha opportunamente richiamato che esistevano fin dall’origine due ermeneutiche concorrenti del Vaticano II, una di “rottura”, l’altra di “continuità”. In breve, la prima era di Rahner e di Congar, la seconda della Nota Praevia aggiunta da Paolo VI alla Lumen Gentium. Gli atti del presente pontificato (Summorum Pontificum, decreto del 21 gennaio 2009) tengono inoltre conto di una terza ermeneutica, quella della minorità conciliare, continuata dall’opposizione lefebvrista, e oggi trasformata e rivitalizzata intorno al Papa da una “nuova scuola romana”. Nel senso che, per non prendere che un solo esempio, quello del n° 3 della “Unitatis Redintegratio” che sembra dire che le comunità cristiane separate possono essere in se stesse mezzi di salvezza, sarebbe ingiusto (e paradossale) di trasformare in crimine contro l’unità della Chiesa:
    a) sia il fatto di stimare in coscienza che, prout sonant, le espressioni dell’Unitatis Redintegratio n° 3 non possono essere accettate come magistero della Chiesa;
    b) sia il fatto di rileggerle dicendo che sono gli elementi cattolici contenuti nelle comunità separate che possono essere strumenti di unione in voto alla Chiesa di Pietro.
    In maniera generale, è possibile pretendere di congelare per sempre la tradizione viva della Chiesa nelle espressioni di 40 anni fa manifestamente da correggere? Si devrebbe avere paura a priori di fare una teologia (e domani un insegnamento magisteriale) con nuove premesse, tenendo conto non solamente degli apporti del Vaticano II, ma anche delle risposte alle “questioni aperte” da questo Concilio?

    2 Dei colloqui teologici con la Fraternità S. Pio X sono già stati fatti su questo punto

    D’altronde, quando il decreto del 21 gennaio apre la via a dei “colloqui” circa le “questioni aperte”, non innova affatto. A più riprese si sono svolte delle discussioni concernenti le difficoltà sollevate, fra altri, dalla Fraternità S. Pio X, sotto l’egida del “Groupe de Rencontre entre Catholiques”, GREC. In una seduta pubblica, il 20 febbraio 2008, sul tema: “rivedere e/o interpretare alcuni passaggi del Vaticano II?”, si è evidenziata una convergenza che è quella del buon senso: il rappresentante della Fraternità S. Pio X postulava la pertinenza di una critica sana e positiva dei punti nuovi del Vaticano II, per dare gli elementi ad una futura elaborazione di testi più chiari; il teologo romano invece stimava che una ricezione del Vaticano II che si fondasse fortemente sul magistero anteriore aveva il suo posto nella Chiesa.
    Sarebbe quindi irrealista fare del risultato di tali colloqui (è evidente che risiede dapprima nella maniera di abbordare i problemi, e questo non solamente per la Fraternità S. Pio X) un preliminare ad una reintegrazione canonica. Il buon senso - che si accomuna al sentire cum Ecclesia – vuole al contrario che sia la reintegrazione canonica che permetta la tenuta di tali colloqui e di altri ancora, i quali aiuteranno alla riflessione teologica nella misura che permetteranno utilmente ad intra l’espressione di un pensiero risolutamente tradizionale.

    3 Perchè domandare alla Fraternità S.Pio X ciò che ha già accettato?

    Del resto, tutto ciò è virtualmente acquisito. In effetti, il 5 maggio 1988, in testa di un “protocollo d’accordo”, Mons. Lefebvre aveva firmato una ”dichiarazione dottrinale” che non rimise mai in causa. Con questa, egli dichiarava di accettare la dottrina del n° 25 della Lumen Gentium sull’adesione proporzionata al magistero secondo i suoi diversi gradi (non gli si chiedeva affatto di dire, ciò che d’altronde non è mai stato precisato dalla S. Sede, che tale o tale passo del Concilio Vaticano II rilevava dell’infallibilità solenne o ordinaria). Riconosceva inoltre la validità della liturgia nella sua nuova forma, qualora fosse celebrata secondo i testi approvati dalla S. Sede. Infine si impegnava (III° dei 5 punti della Dichiarazione) “a proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o concernenti le riforme posteriori sulla liturgia e il diritto canonico, e che [gli] sembravano difficilmente conciliabili con la Tradizione, ad avere un’attitudine positiva di studio e di communicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica”. L’impegno portava sull’”assenza di polemica” e assolutamente non su un assurdo “livello zero di critica”, che del resto si domanderebbe solo ai tradizionalisti.

    Leggendo bene la recente intervista accordata da Mons. Fellay, il 25 febbraio 2009, a Rachad Armanios, lecourrier.ch, non è tanto il riconoscimento del Concilio che Mons. Fellay rifiuta: è piuttosto che questo inafferabile “riconoscimento” gli sia richiesto dalla S. Sede. Peraltro, tutti possono verificare che, da 20 anni, l’atto d’adesione richiesta ai membri della Fraternità S. Pio X che vogliono individualmente o collettivamente (per es. il gruppo di Campos) ricevere una regolarizzazione canonica, riproduce la dichiarazione di Mons. Lefebvre del 1988. In altri termini, la S. Sede non ha mai richiesto altro concernente il Concilio Vaticano II se non questa dichiarazione di buon senso all’insieme delle comunità più tradizionali della Chiesa.

    ***

    Il problema che esisteva con la Fraternità S. Pio X, fino alla generosa decisione del Papa, era l’effetto della decisione del suo fondatore, presa per ragioni che aveva qualificato “stato di necessità”, di anticipare le consacrazioni episcopali per il suo Istituto e di farle senza il mandato pontificio. Ma è in maniera fallace che, da parte degli oppositori esterni, facendosi “alleati oggettivi” sia di certi elementi che di certe cattive e maldestre abitudini interne di questa comunità, è stato di nuovo avanzato l’ostacolo di un “preambolo” dottrinale. E’ in realtà un muro costruito di tutto punto per impedire, nell’immediato, l’unità di tutti i veri cattolici, e nel futuro un fecondo slancio della teologia nei rapporti della Chiesa e il mondo.
    Perchè volere che la tradizione viva della Chiesa si sia fermata, non al Vaticano II stesso, ciò che sarebbe di per sé assurdo, ma ad un certo Vaticano II?

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